mercoledì 4 novembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Un fantasma si aggira per l’Italia. Non è, per una volta, il nucleare ma quel che dovremmo fare per chiudere definitivamente quell’epoca, già seppellita da due referendum. Il dibattito sul deposito unico delle scorie radioattive è infatti il "grande assente" dell’agenda di politica industriale e ambientale del governo. Eppure questo sarebbe dovuto essere il momento-chiave per completare finalmente lo smantellamento delle vecchie centrali, individuando attraverso una consultazione pubblica il luogo ideale per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti atomici. Il percorso era già stato pianificato e aveva come attori protagonisti la Sogin, società controllata interamente dal Tesoro, l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, e ovviamente il governo: prevedeva la pubblicazione della Carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare la struttura, un parco tecnologico in superficie, con tanto di consultazione pubblica e confronto con i territori interessati. Nulla a che vedere con l’incubo di Scanzano Jonico, qualcosa di diverso semmai, più simile ai modelli già attivi in Europa. Qualcosa però si è inceppato.  Perché? E a chi giova questa impasse? Vale la pena riprendere brevemente i termini della questione, per capire gli interessi in gioco e le soluzioni possibili da adottare. L’Italia ha avviato nei mesi scorsi le procedure per l’individuazione del deposito nazionale, che avrà l’obiettivo di sistemare definitivamente circa 75mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività e di stoccare temporaneamente circa 15mila metri cubi di rifiuti ad alta attività. Il 60% del materiale da gestire riguarderà il cosiddetto decommissioning, cioè il progressivo smantellamento degli impianti nucleari, mentre il 40% sarà rappresentato dalle attività di medicina nucleari, industriali e di ricerca. "Scriviamo insieme un futuro più sicuro" era il claim della campagna lanciata da Sogin per sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema da sempre controverso. È accaduto l’esatto contrario, a dimostrazione che il nostro Paese, in materia nucleare, rimane prigioniero della sindrome dell’eterno ritorno al passato.  La Carta è in mano ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, cui spetta la selezione delle aree potenzialmente adatte ad ospitare il sito. La comunicazione non è ancora avvenuta, nel frattempo però è scattata largamente in anticipo la sindrome Nimby (Not in my back yard, non nel mio giardino) che ha portato molti territori ad alzare barricate preventive, dalla Sardegna alla Puglia. Non solo: l’annuncio di dimissioni (indirizzate direttamente all’azionista di riferimento, il Tesoro) da parte dell’amministratore delegato Riccardo Casale ha provocato un nuovo cortocircuito politico, in Sogin e non solo. Il consiglio di amministrazione della società ha poi revocato al manager le deleghe operative relative alla struttura organizzativa e alla gestione del personale ed è inevitabile che i problemi di governance sorti all’interno dell’azienda abbiano finito per complicare ulteriormente anche il resto.  Eppure, sul fatto che si tratti di un’opera strategica tutti si dicono d’accordo: il deposito dovrebbe nascere non prima del 2024 e, secondo gli addetti ai lavori, sarebbe destinato a creare 1.500 posti di lavoro all’anno, 700 dei quali fissi. Garantirebbe una copertura fino al 2065 e permetterebbe di concentrare i rifiuti in un’unica struttura permanente, anziché in più depositi temporanei. Solo per questo fatto, avrebbe dunque anche una notevole convenienza economica. Ecco perché deve muoversi la politica, senza tentennamenti, spendendosi in senso alto e nobile. La questione nucleare in Italia è ad alto tasso di impopolarità e se si ragiona in una prospettiva di consenso a breve termine, si capisce perché tutto sia rimasto fermo. Troppo rischioso addentrarsi in un terreno minato, troppo impegnativo mobilitare comunità e cervelli in grado di spiegare che il deposito unico è occasione irripetibile per chiudere i conti col passato. Servirebbero personaggi dotati di leadership e autorevolezza (che non mancano nel nostro Paese) cui affidare magari questo passaggio delicato e strategico, anche sul piano della comunicazione pubblica. Siamo già rimasti prigionieri dei nostri fantasmi troppo a lungo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: