sabato 2 luglio 2022
I progetti immobiliari delle città all’origine di una nuova forma di segregazione
Un uomo osserva da lontano il suo vecchio quartiere a Washington DC

Un uomo osserva da lontano il suo vecchio quartiere a Washington DC - Montebello-Rinaldi

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Il testo di questa pagina anticipa i contenuti della puntata di «Il Fattore Umano» (un programma di fact-checking per monitorare quanto i diritti umani siano rispettati nei Paesi del mondo) che andrà in onda lunedì 4 luglio, alle 23:15 su Rai3, dal titolo «Non abito più qui».

Detrice è una mamma afroamericana che si aggira come un fantasma tra viali deserti e strade abbandonate, a due passi dal centro di Washington DC. Prova a fare uno sforzo, d’immaginazione più che di memoria, per collocare i pezzi di un puzzle: la casa della madre, la scuola di sua figlia, un’aiuola, persino un cassonetto dell’immondizia ma niente è più come prima. Disorientata, smarrita, al di qua di una rete metallica contempla quel che rimane del suo vecchio quartiere. Ormai sono passati 3 anni da quando l’hanno buttata fuori e la sua casa non c’è più. «Avevo tante vecchie foto di mia figlia che cresceva. Hanno demolito la casa con le foto ancora lì dentro».

Siamo a Barry Farm, un quartiere del quadrante sud est di Washington DC, sulle sponde del fiume Anacostia. Costruito più di cento anni fa con l’intento di dare alloggi popolari a famiglie afroamericane a basso reddito, nel 2018 ospitava circa 57.000 residenti. Oggi non c’è più niente, né gli abitanti né le case. Da oltre un decennio il quartiere è al centro di straordinari interessi immobiliari, coadiuvati da un’amministrazione locale pronta a fare cassa. «Ci avevano promesso di fare manutenzione», ci spiega Daniel del Pielago, attivista di Empower DC, un’associazione che da quasi vent’anni a Washington è impegnata nella lotta politica accanto alle comunità locali a basso reddito. «La versione del municipio è solida: 'Non abbiamo soldi, le nostre proprietà sono fatiscenti'. Ma non crediamo sia vero. Pensiamo che abbiano lasciato deteriorare tutto apposta per avere la scusa di dire: 'Bene, dobbiamo sbarazzarci di voi, dobbiamo demolire e ricostruire e poi potrete tornare'». Prima di ogni cosa, quindi, allontanare i residenti, spostarli da un’altra parte. È questo il primo passo di un progetto molto semplice e uguale in tutto il mondo: abbattere i vecchi edifici popolari per fare spazio a nuove costruzioni da rivendere a prezzo di mercato.

Un mercato molto caro, ad uso e consumo di tasche tipicamente bianche. Ai vecchi residenti di origine afroamericana vengono dati dei voucher con i quali è possibile pagare l’affitto, ma spesso nei nuovi quartieri questi non bastano. «Molte volte i proprietari dicono che non accettano i voucher, trovando scuse per tenerti lontano – continua Daniel –. È un modo per dire che non dovresti essere qui, in questa abitazione a prezzi di mercato, dove abitano persone che non ti somigliano, che sono di una classe diversa, di una razza diversa e tu non sei come loro». Se c’è un posto dove la gentrificazione ha mostrato il suo lato più aggressivo è qui, nel cuore della capitale degli Stati Uniti, a meno di 5 miglia dalla Casa Bianca.

Fino agli anni Ottanta Washington DC è stata la città americana con la più alta percentuale di popolazione di origine afroamericana, ben oltre il 70% , al punto di essere ribattezzata 'Chocolate City'. Una situazione figlia delle politiche di segregazione razziale che hanno plasmato la conformazione urbana della città fin dal primo novecento. «Negli anni Cinquanta e Sessanta i bianchi americani lasciavano la città. Uno dei motivi era proprio la de-segregazione. C’erano molte persone che dicevano: 'Oh, non vogliamo vivere accanto a questa gente e non vogliamo andare a scuola con loro'». A raccontarci l’origine della Washington nera è Sabyha Prince, antropologa e pittrice, mentre ci mostra la sua ultima opera: un quadro in cui è rappresentata una bandiera nera, rossa e verde su cui campeggia la scritta Washington DG, dove DG sta per 'District of Gentrification'.

Oggi la percentuale di popolazione di origine afroamericana di Washington è calata al 45%, ma di per sé non è abbastanza indicativa del radicale cambia- mento sociale in atto. Migliaia di giovani studenti bianchi e professionisti che si sono trasferiti nella capitale hanno scelto di vivere 'downtown', causando un’impennata nei prezzi difficile da sostenere per la comunità residente. Costretta a quel punto a spostarsi da un’altra parte. È così che Washington DC si è trasformata da 'Chocolate City' a 'Cappuccino City', la città in cui il latte bianco prende il centro e spinge il caffè nero ai margini. Una metafora molto efficace, coniata da Derek Hyra, professore di politiche abitative presso l’Università di Washington DC. I suoi studi sulla gentrificazione nella capitale non lasciano molti dubbi sulla stretta correlazione tra l’emergenza abitativa e il colore della pelle. «Non è soltanto un fenomeno di classe, è classe intersecata con la razza. Il valore della ricchezza media delle famiglie di bianchi nell’area di Washington DC è 81 volte quello degli afroamericani. C’è un’enorme disparità di ricchezza qui nella nostra capitale. Quando si passa da un reddito basso a un reddito alto, qui di solito significa passare da un luogo con persone di colore ad uno dove prevalgono i bianchi». E i territori in cui prevalgono i bianchi sono sempre di più.

Tre dei quattro quadranti di Washington DC hanno già visto cambiare pelle alla propria popolazione residente. Come l’area di Shaw/U Street. In questo quartiere di casette a schiera, 40 anni fa l’80% della popolazione era afroamericana, in prevalenza operai. Oggi sono al di sotto del 30% e gli annunci immobiliari che vediamo sembrano incompatibili con un quartiere operaio. «Queste case a schiera vanno da 1,2 a 1,5 milioni di dollari» – racconta il professor Hyra mentre ci destreggiamo tra Bmw, Audi e Tesla parcheggiate nel quartiere –. Le persone devono avere un reddito alto per comprare case e auto di lusso come queste. Quindi qui vivono i ricchi. E garantisco che questo isolato è a maggioranza bianca e non più a maggioranza nera». «La gentrificazione è una forma sottile e silenziosa di razzismo», ci racconta invece Alyesha Wise, poetessa girovaga e performer, che con le sue rime di ispirazione rap percorre le strade americane raccontando le difficoltà del vivere negli Stati Uniti da cittadini neri. «È una situazione che ho visto dappertutto, nei centri più urbanizzati e nelle periferie rurali, dalla East Coast e alla West Coast. È così ovunque, la spinta per tenerti fuori da certi posti, solo perché sei nero».

L’organizzazione indipendente Ncrc, che da anni studia il fenomeno della gentrificazione negli Stati Uniti d’America, conferma con i suoi report questa tendenza, tanto da stilare una classifica delle città più coinvolte. Fino al 2019, il primo posto era occupato proprio da Washington DC, seguita da San Diego e New York. Nell’ultimo studio, pubblicato nel 2020, sul podio c’è San Francisco, capitale dell’industria tecnologica e dei social media. «Qui ci sono Facebook, Google, Twitter. L’età media dei residenti è diventata dai 38 ai 45 anni. È uno scontro culturale», racconta Erik Arguello, presidente del Latino Cultural District, un’associazione che si batte per preservare la cultura latina nel quartiere di Mission, uno dei più coinvolti in questo processo. Dopo una passeggiata tra i pochi negozietti latinos rimasti, ci sediamo lungo uno dei tanti e colorati murales creati dalla comunità ispanica, che paradossalmente diventano attrazione turistica di una città ormai troppo costosa per viverci stabilmente, anche per la classe media. Salutandoci conclude: «Purtroppo, quando parli di diversità qui, significa soltanto: meno di noi».

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