mercoledì 5 aprile 2017
Rinnovatori, aggressivi, oltre i partiti. Formula vincente? Idee e progetti hanno lasciato spazio allo slogan triviale, alla battuta ad effetto, agli incitamenti via «social»
Così nascono i nuovi leader nell'era della turbo-politica
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La fabbrica del consenso produce leader politici a ritmi industriali. Volti e storie capaci di entrare nell’immaginario collettivo in tempi superveloci, come richiedono oggi le regole della comunicazione politica, di affascinare l’opinione pubblica e di tradurre aspettative e istanze dei cittadini in voti e potere. All’inizio del 2015 Donald Trump era un semplice magnate protagonista di programmi televisivi di successo, mentre Emmanuel Macron, che stando ai sondaggi approderà al ballottaggio per l’Eliseo con Marine Le Pen, vestiva i panni del giovane ministro dell’Economia nella declinante presidenza Hollande.

In pochi mesi sono riusciti a elaborare una proposta politica di successo, facendo leva sul ruolo di outsider e inseguendo i voti in libera uscita dagli schieramenti tradizionali: l’attuale presidente degli Stati Uniti l’ha fatto irridendo il politicamente corretto, mischiando pericolosa propaganda ai comizi con l’iperattivismo in Rete; il fondatore di En Marche!, all’opposto, tentando di rassicurare la France tranquille, giocando sui temi della rottamazione dolce e del rinnovamento generazionale. All’inquilino della Casa Bianca sono bastati 512 giorni per rendere credibile agli occhi dell’America il suo programma: era il 16 giugno 2015 quando si candidò ufficialmente alla presidenza, parlando dalla sua Trump Tower. Accadesse a Macron, parole e promesse del 16 novembre 2016 diverrebbero realtà appena 172 giorni dopo, probabilmente un record. Siamo dunque di fronte a due casi recenti che, attraverso percorsi del tutto differenti, testimoniano il grande cambiamento in atto in due grandi democrazie occidentali: è dunque possibile creare, praticamente ex novo, dei candidati credibili da spendere sul mercato elettorale. In barba a ideologie, appartenenze, famiglie politiche. La novità non sta tanto nella possibilità di realizzare tutto questo, ma nel fatto che all’offerta, per utilizzare una terminologia economica, corrisponda analoga domanda e che il bisogno di nuova rappresentanza venga soddisfatto in tempi così brevi.

Un precedente illustre a dir la verità c’è e riguarda proprio l’Italia, basti pensare alla rapida ascesa di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, avvenuta a cavallo tra l’autunno del 1993 e la primavera del 1994. In realtà, si è sempre detto che quel caso di successo rappresentava un unicuum insuperato e insuperabile, frutto tra l’altro di un innegabile strapotere mediatico, di un’abilissima strategia di marketing politico e di una serie di fattori storici contingenti (da Tangentopoli all’esplosione della crisi dei partiti della Prima Repubblica) condensati in pochi mesi. Il boom elettorale pressoché istantaneo dell’ideatore di Forza Italia in quell’inizio degli anni Novanta rappresentò in embrione l’avvento di una nuova stagione per la comunicazione politica. Qualche tempo prima, in realtà, ci aveva provato negli Stati Uniti il miliardario Ross Perot, fautore di una terza via tra democratici e repubblicani: in quel caso, il tycoon aveva finito per favorire Bill Clinton nella sfida con George Bush. Inutile dire che le case history di Berlusconi, in particolare, e dello stesso Perot sono state poi ampiamente studiate da consulenti e spin doctor per realizzare nuove narrazioni di successo.

Oltre vent’anni dopo, la consacrazione della fast politics, la politica superveloce, sembra essere diventata un tratto dominante. Ciò non esclude, verrebbe da dire per fortuna, l’imporsi di figure altrettanto autorevoli che hanno invece bisogno di tempi di decantazione più lunghi. Chi invita a guardare in modo disincantato a quanto sta accadendo è Pier Luigi Celli, già direttore generale della Rai e della Luiss. «Siamo in un’epoca di leader costruiti a tavolino, sempre più artificiali – spiega –. Contano più la velocità di linguaggio e la capacità di reazione alle notizie rispetto alla preparazione culturale, oggi quanto mai scadente, del personale politico. Le cose buone invece maturano con lentezza: i frutti che vedono la luce nella serra non hanno mai lo stesso profumo dei frutti che maturano con i tempi giusti. Sembra si debba vivere solo di stimoli, di emozioni e che alle leadership venga chiesto esattamente questo: essere prettamente funzionali a interpretare gli umori della gente».

Il rischio di seguire questa via, avendo poi il fiato corto di chi non si è preparato alla maratona della politica ma allo sprint dei cento metri, è ben evidente a chi studia i processi sociali e, a ben vedere, una vittima c’è già: si tratta dei partiti. «Non si costruiscono più strutture, ma semplici contenitori in grado di confezionare un’offerta last minute per gli elettori – continua Celli –. Anche l’idea per cui è necessario un cambiamento permanente, nel quale fa premio l’età delle persone, è assai discutibile. 'Se sei giovane, capisci lo spirito del tempo': chi ha detto che è davvero così? Eppure questo è un discorso che vale per Macron come per Renzi. Lo stesso Beppe Grillo, che esercita un potere in proprio del tutto autoreferenziale, ha dovuto generare leader giovani per poter parlare con l’opinione pubblica». Resta il nodo dell’esperienza necessaria, dei corretti tempi di incubazione della nuova classe dirigente, della leadership coniugata come servizio e non come semplice esercizio del potere. «In quest’ultima chiave, l’arroganza sembra essere diventata un carattere obbligato per chi è chiamato a governare. Ma così si autogenerano soltanto i mediocri».

Sullo sfondo della fast politics si intravede perciò il trionfo della cosiddetta 'mediocrazia', che ha bisogno di creare politici in laboratorio e, in molti casi, si esalta soltanto se ha un nemico da abbattere. «Veniamo da una civiltà del confronto, in cui l’avversario era soltanto un avversario, non un totem da eliminare per sempre. Oggi, al contrario, più un uomo politico è in grado di costruire dossier sul proprio rivale per poi usarli contro di lui, più pare riuscire nei suoi obiettivi di chiarezza, trasparenza e comunicazione. Ma questa è la civiltà dell’imputazione, a cui dovremmo sottrarci tutti, a partire dai media». Idee e progetti semplici hanno lasciato spazio allo slogan triviale, alla battuta ad effetto, agli incitamenti via social network. Spesso, la profilazione dei messaggi agli elettori è studiata scientificamente: i guru delle campagne elettorali sanno chi, come, dove e quando colpire per ottenere applausi. Merito di algoritmi e banche dati in mano ai (pochi) soliti noti. È la via breve del consenso, la scorciatoia della legittimazione popolare, il bisogno di garantirsi un ritorno d’immagine. Il problema adesso è che, così come occorre poco per farsi conoscere, funzionare e fare centro, altrettanto può accadere in direzione contraria: è sufficiente un’elezione per riportare un leader politico asceso velocissimamente all’altare d’improvviso nella polvere.

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