giovedì 21 maggio 2009
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Caro Direttore, molto spesso non si fa caso a come si parla per cui anche l’espressione «prima di Cristo» e «dopo Cristo» viene ripetuta senza riflettere sul senso che questo discrimine introduce non solo nella storia ma nelle coscienze. Perciò mi sembra che sarebbe meglio dire «senza Cristo» e «con Cristo» per indicare la novità portata da Cristo con la sua venuta. Prima di Cristo, dice san Paolo, vissuto proprio su questo spartiacque epocale, eravamo senza speranza e senza Dio nel mondo (cfr Ef 2,12). Prima di Cristo c’era separazione tra Dio e l’uomo e la mancanza di speranza era proporzionale a questa distanza. Cristo non fa altro che portare Dio nel mondo (cfr Benedetto XVI, «Gesù di Nazaret», pag. 67) e avvicinare Dio all’uomo. Laddove, prima di Cristo, c’è separazione e divisione, con Cristo il divino e l’umano vengono in contatto e l’uomo non è più solo di fronte alle sue domande e al suo peccato. L’uomo, dopo Cristo, è essenzialmente un uomo con Cristo, un uomo cioè che ha conosciuto Cristo e che Cristo ha reintegrato nel cuore di Dio, offrendogli la possibilità del riscatto e del perdono attraverso il suo sacrificio di croce. L’uomo dopo Cristo è un uomo liberato, un uomo che si sente accolto e amato da Dio. Questo uomo è davvero «un uomo nuovo» (Ef 2,15), perché essendo stato perdonato è a sua volta capace di perdono, perché essendo stato amato è a sua volta capace di amare, perché essendo stato riconciliato con Dio e a sua volta capace di riconciliazione e di pace. Si tratta di una trasformazione radicale che avviene tramite Cristo: ecco perché, per farla sentire, forse è più corretto dire, nell’indicare l’era prima di Cristo, «senza Cristo», e quella dopo Cristo, «con Cristo».

Lucio Coco, Bée ( Vb)

La sua argomentazione, caro Coco, non fa una grinza, dimostrando – da parte sua – una lucida lettura del mistero di salvezza e di libertà che Cristo ha introdotto nella vicenda umana. A ben guardare, la formula di datazione da lei suggerita – «senza Cristo», «con Cristo» – appare non solo più densa e pregnante ma anche un tantino provocatoria. E tuttavia non sufficiente per modificare ufficialmente un discrimine che è già molto chiaro, soprattutto «nelle coscienze», come lei stesso osserva. Una linea di demarcazione riassunta nella dicitura latina tradizionale «Anno Domini» (abbreviata in A.D.), che significa appunto «Anno del Signore», utilizzata fin dagli albori del cristianesimo col calendario giuliano, poi estesa capillarmente in Europa dall’impero Carolingio e infine ereditata dal nostro attuale calendario gregoriano, subentrato nel 1582. Analoga e altrettanto antica è la formula «Anno Salutis» («anno di grazia» o «anno della salvezza»). L’ontologia nuova innestata nel tempo con l’Incarnazione ha dunque spaccato l’arco temporale, segnando un prima e un poi, al punto da essere stata accolta universalmente, contrassegnando la cronologìa ufficiale in moltissimi Paesi e civiltà del mondo, anche non di cultura cristiana, e divenendo prassi dominante sia per gli usi commerciali sia per quelli scientifici. Essa è inoltre lo standard di riferimento adottato da istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e l’Unione Postale Universale. Insomma il calendario dell’era cristiana è divenuto il calendario di tutta l’umanità, nonché della modernità, e questo è già molto bello. E significativo. Anche se l’espressione «avanti Cristo» e «dopo Cristo» divenne veramente diffusa soltanto alla fine del Quattrocento, oggi la lettura di calendari, libri, giornali ci rinvia quotidianamente e incessantemente a quell’Accadimento che ha cambiato – e salvato – la storia. Non dimentichiamocene.
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