martedì 13 agosto 2019
Nella 'Christus vivit' il Papa ridisegna i ruoli. Con più reciprocità e comprensione
Foto archivio Siciliani

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Chi è l’adulto? Participio passato del verbo adolescere, è sinonimo di "cresciuto": in quasi tutte le culture è apparso desiderabile giungere a una reale maturità, e così il passaggio verso il mondo delle responsabilità è stato ritualizzato in una festa. Invece sono in molti a rilevare come oggi, almeno in Occidente, essenziale sia rimanere o ritornare giovani, se possibile per tutta la vita. A livello antropologico si tratta di una deregulation senza precedenti. Non è più definito che cosa sia proprio di ogni generazione e ciò che ci si debba aspettare dalle diverse età. Ognuno può prendersi il ruolo dell’altro. Le possibilità di ciascuno si moltiplicano, così come una competizione in cui chiunque può rivelarsi avversario. Per il cristianesimo si tratta dell’implosione di un rapporto tra le generazioni apparentemente imprescindibile per la trasmissione della fede: in famiglia e poi in comunità gerarchicamente strutturate i grandi educano i piccoli alla vita, introducendo a un ordine spirituale che si vorrebbe riflesso in quello sociale.

Sebbene in qualche angolo del pianeta sembri funzionare ancora, internet materializza ovunque lo scardinamento di quel modello, connettendo ormai "orizzontalmente" ragazzi e adulti a ogni latitudine, senza distinzione di ruoli e identità. Non deve dunque sorprendere che, in ambito cattolico, persino il Sinodo dei vescovi si orienti a non concepire più i giovani semplicemente come "destinatari" della fede: non c’è semplicemente un messaggio da trasmettere da chi sa a chi non sa, ma un’esigenza continua di convertirsi insieme alla novità del Vangelo. Potremmo allora legittimamente chiederci: i giovani hanno ancora bisogno degli adulti? In che cosa possiamo aiutarli? Come ci interpella questo tempo?

Ci sono questioni che investono la fede stessa in cui i millennials stanno evidentemente facendo da apripista e come da enzimi nel corpo sociale. Intensa, ad esempio, è generalmente la loro sensibilità per la cura della casa comune, nelle sfide che riguardano il rispetto per il creato e la necessità di cambiamento nei nostri comportamenti quotidiani. Durante un incontro sul rapporto tra economia e ambiente, ad esempio, un ragazzino di 12 anni interviene raccontando a tutti che quest’anno in quaresima ha vissuto il digiuno dalla plastica. Alla domanda: «Ma cosa vuol dire?», così risponde: «Ogni sabato vado a fare la spesa con mia mamma e vigilo su come fa gli acquisti, chiedendole con insistenza di limitare la plastica, in modo da scegliere confezioni ecologiche e materiali riciclabili». D’altra parte, gli adolescenti che fanno notare al loro prete come i foglietti della preghiera avrebbero potuto esser stampati fronte-retro e su carta riciclata sono gli stessi che vanno sollecitati con un certo vigore affinché non trasformino in una discarica lo scenario alpino in cui stanno pranzando al sacco. L’adulto, insomma, rimane determinante a strutturare in habitus ciò da cui mente e cuore sono attratti, favorendo e accompagnando il passaggio dall’entusiasmo a convinzioni che muovono poi i comportamenti reali.

Il punto, forse, è riconoscere la circolarità delle sollecitazioni: anche dal più piccolo, sempre più spesso, si è messi in questione e chiamati a crescere ancora. In questo il contesto contemporaneo si dimostra realmente nuovo. Più si trascorre tempo incontrando i ragazzi e i giovani del nostro Paese, più ci si rende conto che verso i loro adulti di riferimento essi costituiscono una costante provocazione al confronto e all’apertura. Dove le gerarchie si sono indebolite e i ruoli sono diventati sempre più interscambiabili, la sostanza delle parole e dei comportamenti è la vera questione. In questo, spazzando via molte formalità, i giovani esercitano a propria volta una propria maieutica, che chiede a chi li ha preceduti di venire nuovamente o maggiormente alla luce. Durante una conferenza sui temi della finanza due adolescenti si stavano dimostrando attentissimi. Erano collaboratori di Radio Immaginaria, un network dei ragazzi. Dialogando con loro a margine dei lavori arrivano importanti domande: «Che cosa possiamo dire ai nostri genitori per convincerli ad essere più consapevoli di come usano il denaro? Come possiamo far capire loro che non possono lamentarsi di un mondo che non funziona, se poi loro stessi con le loro scelte contribuiscono a farlo andare così? Si dice che noi giovani non siamo interessati ai grandi temi, per esempio all’economia e della finanza, ma quanto dipende dal modo in cui ci vengono trasmessi?». Domande a degli adulti, sugli adulti: l’incontro tra generazioni rimane quindi imprescindibile, a condizione che includa l’interlocutore e divenga uno scambio.

In realtà, il cambiamento d’epoca ci riconduce così ai fondamentali dell’educazione. Adulto è chi si assume la responsabilità di ciò che dice e di ciò che fa, del mondo così come è configurato, della sua bellezza e delle sue miserie. Sa di non sapere, riconosce il proprio potere e i suoi limiti: quelli strutturali, ma anche quelli necessari a dare agli altri spazio e respiro. Fragile, limitato, in movimento, l’adulto fa una proposta, si posiziona, si colloca con un carattere proprio nella complessità. È il contrario del bambino che scalpita, si gonfia e grida pretendendo di esser tutto e di ottenere tutto. Non è rigido, perché della realtà conosce le sfumature e l’instabilità: la sua coerenza non è ostentazione di principi, ma duttilità e costanza, partecipazione ai problemi altrui, affidabilità. Di fronte alle domande dei giovani, l’esortazione Christus Vivit (CV) di papa Francesco lancia un appello alla Chiesa che per essere credibile ai loro occhi «a volte ha bisogno di recuperare l’umiltà e semplicemente ascoltare, riconoscere in ciò che altri dicono una luce che la può aiutare a scoprire meglio il Vangelo. Una Chiesa sulla difensiva, che dimentica l’umiltà, che smette di ascoltare, che non si lascia mettere in discussione, perde la giovinezza e si trasforma in un museo. Come potrà accogliere così i sogni dei giovani?» (n. 41).

La prima generazione del nuovo millennio non vuole fare a meno o liberarsi di noi adulti, anzi. Il punto è che molte volte non riusciamo a interagire, perché le aspettative reciproche non si incrociano. Vorremmo che fossero pronti ad ascoltare quello che abbiamo da dire e da trasmettere e loro si aspettano, piuttosto, di trovarsi davanti a persone che li comprendano, che li guardino con fiducia e che li sollecitino nelle loro potenzialità e nel superamento di difficoltà e disagi. È capitato durante una lezione con diverse classi di licei e di istituti tecnici di Matera. Ci eravamo preparati, volevamo dare il meglio di noi; abbiamo cercato di arrivare con una presentazione ben fatta e accattivante; rischiavamo di parlare troppo. Fino a quando una insegnante ha chiesto la parola: possiamo mostrarvi quel che abbiamo realizzato noi? I ragazzi hanno cominciato, allora, a condividere la loro preparazione al nostro evento: in modo più originale e innovativo si sono fatti portavoce, gli uni verso gli altri, dei principali messaggi che noi adulti intendevamo trasmettere. E allora, perché chiamare dei relatori? La risposta non ha tardato a venire, con un momento di dialogo insieme ai ragazzi. Domande precise, puntuali, profonde: chiedevano una testimonianza credibile, aiuto, speranza e racconti di vita. «Siamo chiamati a investire sulla loro audacia ed educarli ad assumersi le loro responsabilità» (DF 70): a questo ci richiama il Sinodo. «Si tratta prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e nei diversi ambienti. Dobbiamo limitarci ad accompagnarli e stimolarli, confidando un po’ di più nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come vuole» (CV230).

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