giovedì 8 giugno 2017
Dopo la fase della nascita e quella del consolidamento, le organizzazioni «tra Stato e mercato» si trovano a un bivio: contagiare il mondo di riferimento o implodere
Cooperative sociali, il futuro si gioca nel «terzo tempo»
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La riforma del Terzo settore è arrivata a una fase cruciale. Dopo l’approvazione della legge quadro (l. n. 106/16), è il tempo dei passaggi parlamentari e delle organizzazioni di rappresentanza che sono alle prese con i decreti attuativi, materia tecnica ma assai rilevante per il destino della prima norma che riguarda la 'terza via' tra stato e mercato. Per quanto riguarda l’impresa sociale l’obiettivo è di sbloccare il potenziale, fin qui latente, di quel non profit produttivo e, al tempo stesso, di includere la dimensione dell’impresa for profit nel perimetro del Terzo settore. Un’operazione dalla valenza culturale molto significativa in quanto concettualizza il valore dell’imprenditore in uno spazio dove mercato e reciprocità si ricombinano per allargare e qualificare l’offerta dei beni e servizi più preziosi: quelli di interesse generale. Non solo nei comparti tradizionali – welfare, cultura, ambiente, ecc. – ma risocializzando produzioni come energia, trasporti, infrastrutture dove negli ultimi trent’anni un mix di liberismo e tecnocrazia statalista ne ha estratto il valore più che redistribuirlo. Ciò richiede di ridefinire il profilo organizzativo e 'antropologico' dell’imprenditore, superando lo stereotipo di colui che persegue il mero profitto.

L'impresa sociale ridisegnata dalla riforma dilata la biodiversità dei soggetti introducendo alcune innovazioni significative soprattutto per le imprese for profit che decideranno di adottare questa qualifica: redistribuzione, ma solo parziale, degli utili, apertura della governance a diversi portatori di interesse, operatività in settori di evidente rilevanza sociale, incentivi per coloro che investono nel capitale sociale. Un soggetto sempre più ibrido a cui si aggiunge la possibilità di coinvolgere volontari (in numero non superiore a quello dei dipendenti). All’interno di questa traiettoria di innovazione istituzionale la cooperazione sociale, il modello originario e fin qui più diffuso di impresa sociale, viene riconosciuta come 'impresa sociale' de facto, cioè con un automatismo che non richiede alcun adempimento formale. Ma ad oggi su alcuni ambiti mantiene le sue specificità, come nell’individuazione dei soggetti svantaggiati da inserire in percorsi di inserimento lavorativo, nel caso delle coop sociali di tipo B, e dall’altro dei settori 'welfaristi' in cui operano le cooperative sociali di tipo A (servizi socio assistenziali, sanitari, educativi).

Un automatismo che può essere un’arma a doppio taglio, perché nei decreti in discussione ad oggi non sarebbe prevista la possibilità per le cooperative sociali di operare negli altri settori previsti dalla legge, ad esempio la formazione, la tutela dei beni culturali e ambientali, il turismo sociale, l’housing, ecc. Una mancanza questa da sanare per facilitare l’estensione del paradigma mutualistico oltre il tradizionale perimetro di welfare. Che destino ci si deve dunque aspettare per il 'leader di settore' nel quadro più ampio e diversificato dell’ecosistema dell’impresa sociale? Usando una famosa schematizzazione del guru del management Henry Mintzberg le organizzazioni della società civile apparterrebbero alla categoria delle 'ideological organizations', vale a dire a organizzazioni a forte movente ideale. La vita di tali soggetti conoscerebbe tre fasi: quella della nascita e della prima infanzia, in cui sono l’entusiasmo e la forte spinta motivazionale i fattori di traino; quella del consolidamento, in cui la razionalizzazione degli schemi organizzativi prende il sopravvento; ed infine la fase che vede due esiti possibili: quella del contagio diffusivo nella società di riferimento oppure quella involutiva che si subordina i comportamenti all’ambiente circostante (isomorfismo). Al di là dell’esito dei decreti attesi per il 3 di luglio, riteniamo che oggi la cooperazione sociale sia arrivata al suo 'terzo tempo'. A dirlo non sono le retoriche, ma i numeri: 14mila organizzazioni che negli anni della crisi hanno aumentato occupazione (390mila addetti) e volume d’affari (10,1 miliardi), ma soprattutto hanno saputo mobilitare risorse proprie in una fase in cui la stagnazione era ed è soprattutto legata alla incapacità di innovare e rischiare che attanaglia l’intero sistema sistema Paese.

Le cooperative sociali hanno infatti 7,7 miliardi di investimenti in essere (+44% nel quinquennio terribile 2008-2013), mettendo a valore un capitale sociale proprio che è cresciuto nello stesso arco di tempo del 63% (fonte Euricse). Forte di questi numeri positivi – e di altri meno, come la inevitabile diminuzione del margine operativo lordo di oltre l’80% – questa popolazione d’imprese è chiamata a fare alcune scelte non tanto per l’impatto della riforma, bensì per ri-generare innanzitutto le motivazioni di chi opera al loro interno e di chi beneficia delle loro attività: la comunità. Ecco quindi tre sfide per una cooperazione sociale che non cerca di incapsulare ma di allargare il proprio spazio vitale per servire ancora meglio la propria missione di 'interesse generale della comunità'.

1) Operare non più solo attraverso le catene (sempre più lunghe e opache) delle esternalizzazioni pubbliche, ma nelle nuove economie coesive di territorio, assumendo comunità e portatori di interesse come risorsa e non come mero utente finale. Gli obiettivi di uguaglianza e giustizia sociale si perseguono non solo come soggetto gestore in nome e per conto della Pubblica Amministrazione, ma come soggetto imprenditore che investe sulla rigenerazione dei luoghi e sulla valorizzazione delle risorse (l’empowerment) delle comunità.

2) Rimodulare alla radice strumenti e politiche di gestione del cambiamento e di costruzione delle capacità ( capacity building) attingendo non solo alle competenze interne ma a un sempre più ricco ecosistema di risorse. Nel suo 'secondo tempo' la cooperazione sociale si è dilatata oltremodo dentro uno schema legato alle esigenze poste da un soggetto 'terzo pagante' che ha finito in molti casi per consumare le motivazioni intrinseche dei propri soci lavoratori e quelle della comunità. Da qui la necessità di cambiare modelli organizzativi in un ottica sempre più aperta, ridisegnandoli intorno a nuove competenze e rapporti con interlocutori pubblici e privati orientati al partenariato e non alla subfornitura.

3) Rilanciare la dimensione dell’imprenditività sopita da un eccesso di managerialismo, attraverso percorso non di formazione ma di educazione che aiutino a rischiare, insieme, per il ben comune. Il tempo è maturo perché oggi la cooperazione sociale può attingere a un vasto bacino di competenze e di risorse sviluppate da altri soggetti che in modo più o meno consapevole hanno ripreso e potenziato alcuni suoi caratteri costitutivi: dai cittadini attivi che rigenerano i beni comuni urbani rifondando il volontariato, alla imprese for profit che incorporano valore sociale e ambientale nelle loro catene di produzione superando le logiche risarcitorie.

A prescindere dagli effetti della riforma del Terzo settore sulla legge 381 del 1991 che l’ha istituita, la cooperazione sociale nel suo 'terzo tempo' è chiamata a ri-definire la sua identità. Lo snodo decisivo in termini culturali e gestionali sta nel dar evidenza dell’impatto sociale generato dal mutualismo. In uno scenario in cui la dimensione sociale diventa sempre più pervasiva, è decisivo dare espressività e densità a ciò che è valore sociale. Non basta più rendicontare, occorre valutare, ossia dar valore. La valutazione d’impatto sociale – che probabilmente verrà resa obbligatoria nel rapporto con la Pubblica Amministrazione – potrebbe essere lo strumento, sebbene in un primo momento non apprezzato, per segnare quella biodiversità e accompagnare la cooperazione in questo nuovo ciclo di vita in cui è chiamata non solo a nuove innovazioni di prodotto ma anche promuovere cambiamenti radicali nel welfare.

La possibilità concreta è quella di ridefinire contorni e perimetro di quel primo welfare sempre più standardizzato e preda di gare legate al solo prezzo, e che oggi si trova di fronte alla sfida di trovare per l’immigrazione una strada simile a quella che a suo tempo fu trovata per i soggetti svantaggiati. Nel suo 'terzo tempo', la cooperazione sociale è chiamata a una innovazione nel welfare capace di conversare con la diversità, misurarsi con la tecnologia e incorporare nuove generazioni e pensiero critico per continuare ad essere quell’innovazione dal basso che tutto il mondo ci invidia.

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