sabato 4 gennaio 2014
Anche ombre nel boom mediatico della condivisione.
Simona Beretta e Mario A.Maggioni
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​La sharing economy, o economia collaborativa, è un fenomeno economicamente rilevante e in forte crescita: il giro d’affari supera il miliardo di dollari l’anno,l’investimento dei venture capitalist (i soggetti che decidono di finanziare attività ad alto potenziale di sviluppo) nel settore è cresciuto di otto volte dal 2009 al 2011; per esempio, gli "ospiti" della rete Airbnb – una società che offre servizi di hotellerie da privato a privato – sono cresciuti da 0 a oltre 10 milioni nel giro di 5 anni. Le cifre che descrivono il fenomeno e la sua crescita, soprattutto se si tratta di percentuali, possono trarre in inganno. Anche una impresa che passi da 5 a 40 clienti è cresciuta di otto volte, ma è ben altra cosa da un’impresa che passi da 500 a 4.000 clienti nello stesso periodo. In aggiunta, la diffusione di un fenomeno innovativo, come ad esempio una nuova tecnologia, è caratterizzata da una partenza piuttosto lenta (quando il fenomeno è ancora ristretto a una cerchia di "pochi eletti"), un periodo intermedio di crescita accelerata (in cui la maggioranza si accorge del fenomeno), un successivo periodo di assestamento sul livello di lungo periodo (quando anche gli ultimi ritardatari si aggiungono al gruppo di chi ha adottato la nuova tecnologia). Si parla molto oggi di sharing economy, quindi ci troviamo nella fase due! Utilizzare la crescita attuale per fare previsioni sul futuro significa sovrastimare grandemente l’evoluzione del fenomeno. Inoltre, la sharing economy è composta perlopiù da imprese appena nate – le cosiddette start-up. Molteplici studi internazionali hanno mostrato che metà delle start-up falliscono nei primi cinque anni, e che solo il 25% arriva a compiere 15 anni. Contare quante imprese sono nate negli ultimi anni e utilizzare questo dato come una misura del contributo della sharing economy alla crescita dell’imprenditoria e alla riduzione della disoccupazione è dunque troppo ottimistico: di tutte le imprese nate nel 2013, solo la metà sarà attiva nel 2018 e solo un quarto, nel 2023. In parziale contraddizione con chi afferma che nella sharing economy, grazie alle «nuove tecnologie ICT (cioè della informazione e della comunicazione), è possibile fidarsi tra sconosciuti», due recenti ricerche – una statunitense, una italiana – hanno mostrato che il maggiore ostacolo per la diffusione di questo fenomeno è proprio la mancanza di fiducia (così risponde circa il 75% degli intervistati). Non solo la letteratura economica in materia di teoria dei giochi, ma anche l’esperienza quotidiana, mostra che la fiducia si costruisce attraverso interazioni personali ripetute ed esperienze condivise. Ora, le moderne ICT possono essere molto utili: abbassano i costi di comunicazione tra gli agenti, riducono i costi di monitoraggio reciproco, facilitano il formarsi di una reputazione, sia pure "elettronica". Ma da qui alla costruzione di reale fiducia ne corre ancora parecchio! Tanto è vero che le imprese di successo della sharing economy non si basano su un’astratta fiducia condivisa dal "popolo della rete", ma utilizzano un sistema del tutto tradizionale e ben collaudato per documentare l’affidabilità del loro business: un’assicurazione contro i danni molto consistente (fino 1 milione di dollari), erogata da compagnie assicurative di grande fama. Un ulteriore punto da considerare riguarda il ruolo dell’autorità pubblica di regolazione. Attualmente le imprese e i privati che popolano l’economia collaborativa si muovono in una zona grigia, non ancora mappata dal regolatore. Ben presto, questo cambierà. Senza bisogno di sofisticate profezie, basta guardare a quanto accade negli Usa, dove la realtà della sharing economy è più rilevante e dove già si comincia ad assistere a fenomeni di regolazione e tassazione del fenomeno. In effetti, c’è un interesse pubblico da tutelare. Tutta una serie di norme (basti a pensare a quelle in materia di salute o di sicurezza) a tutela del consumatore non si applicano ancora a molti servizi dell’economia collaborativa; e, dato che il rispetto di queste norme comporta un costo aggiuntivo per l’impresa, si creano le condizioni per una possibile concorrenza sleale da parte delle imprese della sharing economy nei confronti delle imprese "tradizionali" rivali. Oggi la sharing economy è tuttora popolata da un misto di imprese orientate al business e organizzazioni non profit, di chi lo fa per lavoro e chi invece per divertimento. Questo mix di forme e motivazioni diverse viene spesso scambiato per una caratteristica propria del settore o imputato all’effetto positivo del web. Nulla di più ingenuo: molte innovazioni hanno visto, nella loro storia, una naturale evoluzione dal gratuito al pagamento, dall’individuo all’impresa, dalla piccola alla grande impresa. Anche eBay agli albori della propria storia era popolata da privati che svuotavano la propria soffitta o che volevano monetizzare le proprie manie e collezioni giovanili: ora è "terreno di caccia" di operatori professionisti. Specie nel caso di innovazioni che si basano su "esternalità di rete" – in cui il vantaggio per il singolo nel partecipare a una rete aumenta al crescere del numero degli altri partecipanti – la tendenza naturale è verso la crescita dimensionale delle imprese e la concentrazione del mercato. Non manca chi ha fatto notare che dietro molti neologismi della sharing economy stanno in realtà dinamiche e istituzioni che vantano una lunga tradizione nel substrato culturale del nostro Paese: che cosa ha il crowdfunding (la raccolta di fondi tra la folla, cioè "dal basso") in più rispetto alla più casereccia "colletta"? In che senso il co-working (svolgere lavori diversi in uno stesso ambiente) è più affascinante di una cooperativa? Ma soprattutto: non è ingenuo pensare che "basti l’etichetta" per fare condivisione? Che con la sharing economy, si sia finalmente risolta la tensione fra l’io e il tu, fra l’io e il noi? Che l’economia e l’etica si siano efficacemente saldate, solo perché condividendo si possono anche fare dei soldi? Viene il sospetto che alla base dell’entusiasmo per la sharing economy si trovi ancora una volta quell’errore antropologico le cui radici affondano nell’illuminismo utopico à la Rousseau, per cui esiste una condizione umana – che il filosofo francese identificava nello stato di natura – non corrotta dalle convenzioni e dalle istituzioni sociali. In realtà, non basta l’oggetto a decidere della bontà di un’azione; non basta la condivisione materiale per poter dire davvero "noi". In fondo, si tratta di una saggezza antica: non c’è spazio umano in cui non rilevi l’eredità del peccato originale. Anche nella sharing economy rimane aperto il dramma della libertà umana: e in questo senso non c’è rete che tenga, non c’è social che salvi.
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