martedì 26 maggio 2015
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​Da un po’ di tempo si è tornati a parlare di «capitalismo di relazione». In particolare, dalla visita del premier Renzi alla Borsa di Milano ospite del “Programma Elite” che, in sette edizioni, ha avvicinato al mondo finanziario più di 250 aziende nazionali di varia dimensione, con una certa prevalenza per le piccole e medie. Da questo punto di vista, un programma di buon successo tanto da essere replicato in Europa, con i buoni uffici della Borsa di Londra, proprietaria di quella di Milano. Che poi solo una di queste aziende in tre anni sia approdata al mercato borsistico principale e qualcun’altra all’Aim, segmento dedicato alle pmi, è tutto un altro tema, non certo di completa responsabilità del soggetto promotore di questa interessante iniziativa. In quella sede, dunque, il presidente del Consiglio rispolverò un termine, «capitalismo di relazione», ben noto ai frequentatori delle pagine economiche dei media, ma ormai un po’ desueto. Renzi voleva così contrapporre alla positività del “Programma Elite” il comportamento amorale, ma assai conveniente, di tante imprese operanti in Italia, nazionali e non, che da sempre fanno di frequentazioni ristrette e partecipazioni a salotti e network il vero motore della propria azione economica che tante ricadute negative ha sull’economia di tutti gli altri. Per intenderci, basta accennare alla realtà di certe banche dove – secondo un interessante e documentato studio di Confartigianato di qualche anno fa – la maggior parte dei crediti incagliati difficilmente esigibili (di fatto delle perdite) sono verso grandi imprese pubbliche e private alle quali sono stati concessi, verrebbe da pensare, tra un primo e un secondo di un pranzo tra sodali. Queste perdite sono poi spesso utilizzate per spiegare, insieme ad altri fattori, una politica creditizia restrittiva verso le altre aziende, spesso di minori dimensioni ma di meno interessanti frequentazioni, che, invece, i propri debiti li hanno nel passato quasi sempre onorati. Tutti d’accordo, allora, nel mettere all’indice questi comportamenti, ben sapendo peraltro che sempre ci saranno perché, un po’ alla stregua del too big to fail (troppo grandi per fallire), tra potenti e prepotenti ci si comporta così. A quel punto però mi sarei aspettato un capovolgimento dei piani che, purtroppo, non c’è stato. C’è invece, mi sarebbe piaciuto sentire affermare, una relazione quotidiana, dal basso, fiduciaria e concreta che coinvolge sul territorio, almeno dagli anni Settanta del precedente secolo, migliaia di imprenditori, a piccoli gruppi e in forme continuamente rinnovate con pragmatismo e fantasia, per realizzare obiettivi economici che garantiscono poi ricadute positive per tutti in termini di occupazione, export, immagine, in sintesi ricchezza. Questo è, deve essere il nostro vero e positivo «capitalismo di relazione». Un fare impresa che oltre alle buone idee e pratiche elaborate all’interno dei propri confini con il supporto dell’autorità e del coordinamento, si apre alla collaborazione, spesso di lungo periodo, sul territorio o a molte centinaia di chilometri di distanza, a monte o a valle con altre aziende manifatturiere, di servizio o di credito per migliorare la qualità del proprio prodotto. Si chiamano, in particolare, distretti industriali o contratti di rete. I primi, sorti un po’ per caso e comunque in difesa nei primi anni Settanta, godono tuttora, contro il parere di molti, di grande vitalità e concorrono a migliorare continuamente la capacita esportativa delle nostre imprese. I secondi, più recentemente, hanno coinvolto in pochi anni migliaia di aziende nelle diverse forme possibili rendendo praticabile una proficua collaborazione. La relazione, quando è trasparente, fiduciaria e operativa permette di fare buona economia soprattutto in un Paese di piccole e medie imprese che solo con un’intensa interazione possono “diventare grandi restando piccole”.
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