Lettera di battaglia da un sabato scolastico.
sabato 1 ottobre 2016
Caro direttore,
oggi è un sabato di scuola come tanti altri, e come spesso capita all’uscita mi sono fermata con alcuni colleghi perché anche oggi alcuni nostri ragazzi hanno avuto alcuni problemi tra di loro. Vogliamo chiamarlo bullismo? Vogliamo chiamarla prepotenza? Vogliamo chiamarla maleducazione? Comunque il problema è grande e profondamente radicato. E proprio dopo pranzo leggo l’articolo di Marina Corradi «L’amaro gusto di prevaricare» ( www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LAMARO-GUSTO-DI-PREVARICARE-.aspx ) e mi soffermo a pensare ancora a quei ragazzi che tutti i giorni vivono in un silenzio assordante la loro condizione di difficoltà. Il presidente della Repubblica ha giustamente detto che per contrastare il bullismo è necessario, e io sottolineo urgente, un patto scuola-famiglia. Ma nel concreto? Noi adulti abbiamo il preciso compito di occuparci dei ragazzi, noi insegnanti non possiamo passare indifferenti le nostre giornate in mezzo a loro contenti solo di aver fatto una splendida lezione di matematica o di italiano, quando nell’aria e nei loro volti vedi che qualcosa non va, vedi uno sguardo assente, uno sguardo lontano, vedi ragazzi isolati, senti battute sottilissime con parole apparentemente non offensive che però per i più sensibili sono come una pugnalata allo stomaco. Quando vedi il velo delle lacrime che salgono e che non devono scendere perché davanti agli altri sarebbe assolutamente da deboli. Una cosa che con i miei colleghi amiamo dire ai nuovi insegnanti che ogni anno arrivano da noi è che è più facile occuparsi di un ragazzo problematico, vivace, a volte oltre le righe, che di un ragazzo silenzioso, taciturno, che dapprima ci farà comodo, perché non ci disturba, e poi piano piano rischierà di scomparire se non continuiamo ad “accorgerci” di lui. Allora prima di una doverosa alleanza con le famiglie, è necessaria una altrettanto doverosa attenzione ai ragazzi, giorno per giorno. Osserviamoli in classe quando parlano tra di loro. Avviciniamoci ai ragazzi spostandoci dalle cattedre che sono come muri a volte invalicabili, postazioni del nostro presunto potere di insegnanti. Parliamo con loro, uno per uno. Individuiamo in ognuno un punto di forza da valorizzare, fermiamoci durante l’intervallo a parlare con chi resta solo in classe e ogni giorno facciamo fermare con noi alcuni compagni per fare loro compagnia, per creare un legame che permetta di uscire dall’isolamento. Domandiamo loro se per vivere bene hanno davvero bisogno di stringere amicizia coi prepotenti solo per non soccombere, creando quelle strane alleanze che portano a sudditanza e persino all’annullamento di sé. Parliamo dei loro interessi, del calcio, della musica. Facciamoli lavorare insieme in classe. Amiamo i nostri ragazzi che dimostrano una qualche disabilità, coinvolgiamoli nei nostri discorsi e poi coinvolgiamoli nei discorsi con i compagni. Facciamo in modo che occupandosi gli uni degli altri comprendano che essere sensibili non è una debolezza, che essere taciturni non è una stranezza. Accorgiamoci di un’assenza prolungata, telefoniamo a casa quando non vediamo qualcuno per un po’, chiediamo ai compagni e cerchiamo di capire dalle loro parole se ci sono difficoltà. Noi adulti dobbiamo credere che tutto questo abbia un valore, un grande valore . Perché uscire dall’isolamento vuol dire rafforzare se stessi, accrescere la stima di sé, essere consapevoli dei propri punti di forza e delle proprie debolezze. Creare un legame con le famiglie vuol dire, allora, aiutarle a comprendere i comportamenti dei figli nelle difficoltà, aiutarli a creare intorno ai propri figli le stesse condizioni di amicizia, interessi vissuti, di attenzioni che permettano ai ragazzi di dare un senso alle proprie giornate. Ci vuole tempo, molto tempo, quel tempo che spesso noi insegnanti non vogliamo avere, pensando di aver assolto al nostro compito educativo solo con le lezioni e gli esercizi. Tempo per essere a scuola anche oltre l’orario, tempo per cercare i nostri ragazzi durante la mattina per parlare, tempo per costruire insieme ai colleghi strategie comuni per risolvere i problemi. Solo insegnanti consapevoli e che comunicano tra loro possono rendere più forti i ragazzi. Perché non continui ad avanzare quella anoressia di compassione di cui avete parlato in un articolo di Luigino Bruni dedicato alla «cura dei sentimenti» (“Avvenire”, 29 luglio 2016 www.avvenire.it/Commenti/Pagine/Anoressia-di-compassione-Nuova-cura-dei-sentimenti-.aspx ) che renda ognuno di noi incapace di gioire, soffrire, immedesimarsi negli stati d’animo dell’altro, quasi in una sorta di bolla anestetizzata.
Monica Riva, insegnante, Reggio Emilia

La sua lettera è più di un appello, gentile e cara professoressa Riva. È una lettera di battaglia. Di buona battaglia. È cioè un programma, un progetto educativo sintetico eppure a tutto tondo ed è – lo percepisco bene – il frutto di un’esperienza già in atto. Le sono grato per la lucidità, la competenza e la passione con cui ha deciso di condividere tutto questo con noi, in dialogo con la realtà, con il nostro dare conto da cronisti e proporre da uomini e donne di coscienza, con l’incitamento limpido e forte del presidente Mattarella a reagire, smettendola di subire e di distogliere lo sguardo, davanti al dilagare di un bullismo che è il nome adolescente delle guerre. Nome adolescente, ma non meno inquietante, delle sopraffazioni, degli assedi e degli isolamenti, dei silenzi passivi o complici che accompagnano le ingiustizie e i piccoli e grandi orrori che mortificano il mondo e la nostra stessa società. Non voglio aggiungere altro. Mi limito semplicemente ad annotare che sono la consapevolezza e il sentimento che lei, cara professoressa, sa esprimere così bene a rendere specialmente preziosa la scuola, prima alleata della famiglia, sorella di ogni altro accogliente luogo formativo, essenziale palestra dell’incontro e del dialogo, laboratorio culturale, spirituale e civile dove ognuno può apprendere e comunicare verità non banali e pensieri non deboli sulla propria vita e sulla forza delle relazioni che alla vita umana danno senso. Non sempre è così, ma così deve essere. Grazie ancora, e buon urgente lavoro.
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