Ma Dio ci attende al tornio
domenica 9 luglio 2017

«Il lavoro fisico costituisce un contatto specifico con la bellezza del mondo e un contatto di una pienezza tale che nulla di equivalente può trovarsi altrove»

Simone Weil, Attesa di Dio

Per capire la profezia e i profeti biblici ci sarebbe bisogno di una laicità che non abbiamo più. Non c’è, infatti, nulla di più laico di un profeta, perché anche quando parla di Dio dice soltanto e sempre vita, storia, lacrime, speranze, quotidiano, lavoro. I discorsi dei profeti erano sugli uomini e sulle donne, che tutti attorno potevano e dovevano capire anche senza essere esperti di teologia. È questa la loro laicità, se proprio vogliamo usare un termine che sarebbe stato per loro totalmente incomprensibile, perché ciò che per noi è laico per loro era semplicemente la vita, tutta la vita. La prima e spesso decisiva difficoltà per comprendere la Bibbia e i profeti si trova nella stessa parola: "Dio". Quando noi incontriamo questa parola, inevitabilmente incontriamo un concetto ricoperto da millenni di cultura, di cristianesimo, di teologia, di filosofia, e poi dalla modernità, i suoi ateismi, la scienza, la psicanalisi, e così ci diventano incomprensibili il Dio dei profeti e la parola di costoro, che avrebbero bisogno della povertà del Sinai, dei mattoni d’Egitto, dell’essenziale libertà della tenda dell’arameo errante – ecco perché i migliori ascoltatori della Bibbia sono sempre stati e ancora sono i bambini: occorrono la loro libertà e povertà per entrare in questo Regno.

«Essi mi dicono: "Dov’è la parola del Signore? Si compia finalmente!". Io non ho insistito presso di te per la sventura né ho desiderato il giorno funesto, tu lo sai. Ciò che è uscito dalla mia bocca è innanzi a te» (Geremia 17,15-16).
Seguendo Geremia nello sviluppo del suo libro e della sua vocazione, entriamo qui in una nuova tappa, e in un’altra dimensione della sua immensa profezia. I nemici continuano a contestarlo e a insidiarlo, e ora incominciano a usare i fatti per negare la verità della sua profezia di sventura. Il tempo passa, la distruzione annunciata da Geremia non arriva. La storia sembra dar ragione alle ideologie illusorie dei falsi profeti venditori di consolazioni. Anzi, lo accusano di essere un produttore di scenari funesti, di essere un nemico del popolo al quale sta augurando maledizioni da lui stesso inventate per confondere la sua gente. Una sorte, questa, che Geremia condivide con i tanti uomini e donne che si trovano per fedeltà alla propria coscienza ad annunciare il declino nel tempo del successo, il tramonto nel mezzodì. Questi dapprima vengono tacciati di disfattismo e accusati di essere falsi profeti di sventura. E poi, quando lo scenario funesto si verifica realmente, finiscono per essere accusati di essere loro la causa della tragedia, e diventano il capro espiatorio del male che avevano soltanto onestamente annunciato. È questo un meccanismo tanto sciocco quanto comune nelle comunità malate di ideologia, come lo era la Gerusalemme al tempo di Geremia. L’ideologia è per sua natura infalsificabile, e i fatti che vanno nella direzione contraria a quella predetta dalla fede ideologica vengono sistematicamente reinterpretati e manipolati, mai usati per l’auto-sovversione delle certezze rivelatesi false.

Geremia sa di aver profetizzato nella verità, ma questa sua confessione ci fa intravvedere un dubbio, e ci apre anche uno squarcio nella sua interiorità. Il profeta non è uomo della certezza. Il dubbio è il suo pane quotidiano. L’assenza di dubbi è il primo segnale che svela la falsa profezia.

Nel capitolo successivo, scopriamo che l’attacco a Geremia assume nuove forme: «Dissero: "Venite e tramiamo insidie contro Geremia, perché la Legge non verrà meno al sacerdote né il consiglio al saggio né la parola al profeta. Venite, colpiamolo con la sua stessa lingua, stiamo attenti a ciascuna delle sue parole"» (18,18). I sacerdoti, i saggi e i profeti stanno adottando una nuova strategia per disinnescare l’azione di Geremia: vogliono usare contro di lui le parole della sua stessa profezia. La figura di Geremia stava diventando sempre più imponente a Gerusalemme. L’eliminazione fisica – come quella intentata anni prima dai suoi famigliari in Anatot – sarebbe ora imprudente e forse controproducente. C’è bisogno di un’azione più sofisticata, e così i persecutori di Geremia cambiano piano di azione. Iniziano a seguirlo e osservarlo con estrema attenzione, per cercare nelle sue parole una contraddizione, un vulnus, un errore, una frase contro il tempio, una critica ai sacrifici voluti da Mosè o a un precetto della Torah, da usare poi in un processo contro la sua persona e la sua opera. Geremia è cosciente di essere vulnerabile su questo fronte. I profeti sono imprudenti, non sono politically correct, non sono conoscitori di tutti i segreti e trucchi della Legge. Finora nelle parole di Geremia abbiamo trovato parole e attacchi contro la religione del tempio che se raccolti da un dottore della legge e portati davanti a un tribunale avrebbero prodotto gli stessi capi di accusa che qualche secolo più tardi porteranno all’accusa e alla condanna di Gesù di Nazareth. Geremia inizia a essere cosciente che tra quelli che nel tempio e nelle piazze si radunano per ascoltarlo ci sono degli ’infiltrati’ che lo seguono solo per incastrarlo. Molte persone, giunte a questo punto iniziano ad auto-censurarsi, a togliere dai propri discorsi tutti i riferimenti pericolosi, a eliminare quelle parole che possono condannarlo. Ma Geremia non lo fece, continuò il suo canto imprudente e libero, che così è potuto giungere fino a noi. Se fosse prevalsa la virtù della prudenza, se avesse voluto salvare la sua vita, noi avremmo perso un patrimonio di parole dal valore immenso. La prudenza non è sempre una virtù. Per i profeti non lo è mai, perché mettono la libertà imprudente della parola prima della prudenza delle loro parole. Con una condotta prudente molti martiri non sarebbero stati uccisi, molti profeti avrebbero evitato persecuzioni e sofferenze, ma la loro vita sarebbe stata meno vera e il nostro mondo sarebbe peggiore. L’etica biblica non è l’etica delle virtù.

Ma in queste persecuzioni sempre più sofisticate possiamo scorgere ancora qualcos’altro. Innanzitutto Geremia ci dice che i suoi nemici sono i sacerdoti, i teologi e gli intellettuali, cioè le élite del paese. Geremia non è attaccato soltanto i suoi "colleghi" profeti, ma dall’intera classe dirigente. È questo un dato che ci svela in controluce quanto grande fosse il peso della profezia in Israele. Un solo profeta è capace di minare l’intero edificio politico e religioso. Solo un popolo magari corrotto, ma fondato originariamente sulla parola può prendere così seriamente un profeta. Oggi molti "fratelli di Geremia" continuano a profetizzare nei nostri imperi, ma nessuno se ne accorge più. La forza e la serietà della persecuzione di Geremia dicono, nel paradosso, la stima che il popolo di Israele aveva per la profezia. Una civiltà che non capisce i profeti non li perseguita perché, semplicemente, li ignora. La storia della profezia in Israele ci può dire allora qualcosa di importante. Finché c’è conflitto tra élite dominanti e profeti, tra istituzione e carisma, siamo ancora dentro comunità che fanno nascere e sanno riconoscere i profeti, e per questo possono sempre salvarsi. La presenza di Geremia e degli altri profeti dell’esilio babilonese furono anche il grande segno che Israele non era stata abbandonata da YWHW: è Geremia, combattuto e respinto dal popolo, il sacramento dell’Alleanza nel tempo della corruzione e dell’apostasia. Finché in una comunità pervertita c’è un profeta che parla, c’è ancora possibilità di futuro.

Infine, incastonata tra queste due congiure, troviamo la stupenda scena del vasaio: «Questa parola fu rivolta dal Signore a Geremia: "Àlzati e scendi nella bottega del vasaio; là ti farò udire la mia parola". Scesi nella bottega del vasaio, ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto» (18,1-4)

Dio parla a Geremia dentro una bottega di un artigiano. Geremia aveva proclamato la parola di YHWH nel tempio, lì aveva avuto le obiezioni dei suoi concittadini, lì erano sorti i suoi dubbi sul ritardo dell’avveramento di quelle parole. Ma la luce per sciogliere quei dubbi gli arriva fuori dal tempio, mentre passava davanti a una umile e laica officina artigianale. Sta attraversando una fase delicata della sua vita, la polemica dura dei suoi oppositori stava mandando in crisi la verità della sua profezia e vocazione, e Dio gli parla con le mani laboriose e sporche di un artigiano. E così la Bibbia ci dona uno dei canti più belli sul lavoro umano e della sua teologia delle mani. Quell’artigiano ha prestato a Dio le sue mani per farlo parlare. Ed è lì, in mezzo alla polvere e al rumore del tornio, che Geremia capisce il senso del ritardo della manifestazione della sua profezia: «Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele. A volte nei riguardi di una nazione o di un regno io decido di sradicare, di demolire e di distruggere; ma se questa nazione, contro la quale avevo parlato, si converte dalla sua malvagità, io mi pento del male che avevo pensato di farle». (18,5-8). L’aspetto più importante di questo episodio, non è l’interpretazione che Geremia dà all’azione del vasaio, ma il semplice fatto che Dio gli ha parlato utilizzando il lavoro muto di un artigiano.

In un tempo di crisi e di trasformazione del lavoro, non possiamo oggi non accogliere questa parola di benedizione del lavoro che ci arriva da Geremia. Il lavoro umano è anche luogo di teofanie, per chi lavora e per chi osserva gli altri lavorare. E mentre noi continuiamo a cercare la risposta ai nostri dubbi nel tempio, o quando abbiamo smesso di cercarle, Dio ci attende nelle botteghe, manovrando il tornio dal suo banco di lavoro.

l.bruni@lumsa.it

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI