venerdì 3 settembre 2010
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Il cuore dell’Aspromonte batte nella valle del Bomanico, acqua povera e fragile nata dalle creste intorno, pietre alte abbastanza per coltivare rifugi rischiosi, per custodire ricordi passati di gite felici, di approcci naturali, ma pure di selvaggi predoni uguali ieri e oggi. San Luca è il borgo più grande, Polsi è il più importante aperto al sacro, benedetto dallo sguardo della Madre, venerata nel santuario a Lei dedicato come A Maronna ra muntagna, che in dialetto reggino sta per La Madonna della montagna. Ai suoi piedi, dalla primavera al mese di ottobre, accorre da tutta la provincia un numero significativo di pellegrini per offrire alla Madre le proprie suppliche, le proprie sofferenze, le richieste di grazie, mentre ancora qualche pastore sanluchese pascola il gregge in zona. Confusi tra i pellegrini anche i banditi decidono banchetti e cercano protezioni per i loro delitti.Le televisioni di tutto il mondo, nello scorso luglio, hanno trasmesso la loro adunanza, quel rito sacrilego in cui, vestiti per la festa, si mostravano in devoto ossequio, mentre le loro labbra pronunciavano il nome delle loro prossime vittime. Una risposta ferma, quella del vescovo Fiorini Morosini, chiara a ribadire quanto la Chiesa da sempre insegna: «Se altri vengono qui con l’illusione di poter dare un significato religioso alle loro attività illegali… è un problema loro». Non c’è nulla che possa legare il sentimento religioso alla ‘ndrangheta. Il Santuario, luogo simbolo della religiosità calabrese, offre però scenari più gravi: mentre amplifica per il clamore mediatico l’insano rapporto tra sacro e malaffare, disegna percorsi che travalicano i monti di Calabria.Esperienza certa di fede è la pratica popolare che si inserisce nel viaggio dell’Evangelo, non ancora compiuto, che accarezza di senso e contenuti la pietà popolare, i riti e le pratiche delle gente semplice, ma non sempre riesce a purificarli dal vento contrario della superstizione, della riduzione scenica ai propri interessi malati, qualsiasi essi siano, anche i più scellerati. «In questo santuario – ha rimarcato il presule – si è consumata l’espressione più terribile della profanazione del sacro ed è stato fatto l’insulto più violento alla nostra fede e alla tradizione religiosa dei nostri padri».Le parole che valgono per Polsi, valgono per ogni processione di statue portate a passo di danza da funambolici mafiosi, valgono per le feste di piazza, cornice di religiose adunanze dirette da camorristi primi attori, valgono per quelle generose offerte appuntate al manto delle statue, bottino non di povera colletta ma di sanguinarie rapine. Ha ragione e coraggio il vescovo, che sceglie, benché il delitto di alcuni, di non interrompere la processione della Vergine. La tradizione popolare nasconde il fascino della ricerca e la pietà del semplice, e se è giusto richiamare alla conversione e al pentimento i corrotti e i blasfemi, non per questo si può umiliare la fede e la devozione di tanti. Ma la storia di Polsi, purtroppo non unica, interroga percorsi pastorali ancora poco esplorati: è necessario dare significato e contenuto di Vangelo alla pietà popolare che, ricca di espressioni, cultura, passioni, istinto di terra, naviga spesso a vista e serve ad altri poteri, più che alla Chiesa per il suo servizio di verità e amore.Sarebbe peccato grave se per colpa di una cura superficiale, di una distanza preconcetta dal sentimento popolare, lasciassimo senza guida un patrimonio così straordinario di fede e di storia, e sarebbe ancora più grave se per la nostra mancanza di accompagnamento il sacro fosse trasformato in folclore, la pietà in superstizione, la liturgia in rito banale. Questo, sì, è un problema nostro.
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