venerdì 11 settembre 2015
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La legge inglese, i medici e le scelte di fine vita La Gran Bretagna sperimenta oggi un nuovo tentativo di inserire nell’ordinamento giuridico forme di suicidio assistito col voto della Camera dei Comuni sulla proposta di legge del deputato laburista Marris. È dunque assai significativo che in questo stesso periodo i medici inglesi si interroghino su quanto accaduto negli ultimi anni nel territorio del fine vita. Stiamo parlando del «Liverpool Care Pathway» (Lcp), protocollo per garantire in ospedale ai malati terminali di cancro gli stessi trattamenti assicurati dagli hospice. Presentato come un servizio all’avanguardia, il protocollo è stato abolito dallo stesso sistema sanitario inglese dopo che una commissione di inchiesta governativa – insediata a seguito di casi allarmanti portati alla ribalta dai media – ne aveva accertato il fallimento. La commissione, guidata dalla baronessa Neuberger, ha concluso i suoi lavori due anni fa con un report da cui è emerso un desolante panorama di abusi e pratiche improprie, tanto che Norman Lamb, ministro della Salute, parlò di «disgrazia nazionale». Molti i malati inseriti nel programma Lcp a loro insaputa, ai quali erano state sospese sia le cure che l’alimentazione e l’idratazione assistite, e spesso somministrati pesanti sedativi che ne spegnavano ogni segno di vitalità. Il tutto senza il loro consenso oppure omettendo di avvertire i familiari, alcuni dei quali hanno visto i propri cari morire succhiando affannosamente spugne inzuppate d’acqua, unico modo per dissetarsi dopo la sospensione dei nutrimenti: tanto che la commissione si è sentita in dovere di scrivere che «negare da bere a un paziente assetato è doloroso e inumano». Nonostante i lodevoli obiettivi, l’Lcp si è rivelato uno strumento fragile, in troppi casi l’alibi per l’abbandono dei malati, con il governo invitato a sostituirlo con nuove linee guida. L’incarico è stato affidato al Nice – National Institute for Health and Care Excellence – che ha reso noto alcune settimana fa un testo provvisorio. Subito c’è chi ha autorevolmente denunciato che le nuove regole sarebbero addirittura peggiori delle precedenti, accusando il Nice di aver fatto un «disastro di disinformazione, distorsione e ambiguità». Il dibattito sul fine vita, insomma, si è di nuovo acceso. E il voto dei deputati non può che riaprire la ferita. Se il comune obiettivo è che i morenti possano avvicinarsi alla fine ricevendo i trattamenti più adeguati alle loro condizioni, nel rispetto delle scelte personali, la tragica attuazione dell’Lcp ha mostrato quanto il criterio dell’autodeterminazione, specie nelle scelte di fine vita, scivoli facilmente nel suo opposto: in nome della scelta del paziente troppo spesso si è finito per ignorare proprio le sue volontà. In questo senso l’Lcp non è un caso unico: in Belgio sono recentemente aumentate le segnalazioni di eutanasia effettuata senza il consenso esplicito del paziente, un fenomeno ormai pari all’1,7% dei casi, secondo il Journal of Medical Ethics. Un paradosso? No, piuttosto la conseguenza del diffondersi di una mentalità – diciamolo chiaramente – eutanasica, che prende piede anche fra i medici, basata su un’idea esasperata di autodeterminazione, secondo la quale in certe condizioni – soprattutto la non autonomia del malato – la vita ha meno valore e non vale più la pena di essere vissuta, indipendentemente dal fatto che si sia o meno in prossimità della morte (i costi sempre meno sostenibili da sistemi sanitari costruiti quando l’economia era fiorente fanno il resto). La finalità della professione medica si sta trasformando: non sempre curare e salvare la vita è il bene del paziente, a volte sembra meglio farla finita, specie se è il malato a chiederlo. C’è una linea sottile che separa il rifiuto del cosiddetto accanimento terapeutico e delle cure – legittimi – e l’idea che è un diritto morire quando lo si decide. È quindi sempre più possibile che un medico si trovi di fronte alla richiesta eutanasica da parte di malati non gravi: aumentano infatti i Paesi che riconoscono il 'diritto a morire', o la vincolatività dei «do not resuscitate order », le dichiarazioni nelle quali si chiede di non essere rianimati in alcune circostanze, quando invece sarebbe compito del medico farlo. Cambia di conseguenza l’atteggiamento dei professionisti: oltre che curare, il loro compito può essere anche quello di dare la morte, direttamente o indirettamente, sottraendo trattamenti salvavita o comunque di sostegno. Sono gli stessi medici a pensare a questi percorsi come un’alternativa legittima nell’ambito della propria professione, a partire da quei Paesi dove sono consentiti l’eutanasia e percorsi di fine vita che lasciano ampi margini di ambiguità. È dunque la natura della professione medica a subire una mutazione sostanziale, e ciò accade sull’onda della rivoluzione antropologica in atto.
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