venerdì 14 dicembre 2012
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Ma chi è Stefano Cucchi? Un morto, e cosa volete che conti un morto. Niente, quando chi muore è nessuno. O peggio che niente, quando è meno di nessuno, quando l’arresto e le manette e l’accusa e la presentazione a processo direttissimo ne fanno storia di delinquente catturato, e il corpo offeso (come fosse percosso, dai segni) trasloca in ospedale per atroce agonia, poi in cimitero. Niente, se niente è la disperazione che ci prende al crocevia d’una malagiustizia e d’una malasanità che si annodano, segni entrambi di un deficit d’umanità e di civiltà che ferisce la nostra coscienza.Stefano Cucchi è morto per l’incuria dei medici dell’ospedale dov’era stato ricoverato. Non le botte, dunque (per le quali restano accusati tre agenti) l’avrebbero ucciso, ma la negligenza e l’imperizia dei medici. Così dice la relazione peritale depositata ieri alla Corte d’assise di Roma. Leggiamo, registriamo, aggiorniamo le emozioni che ci presero allora, tremende, su quella morte. Ma non troviamo di che placare l’angoscia che ancora ci stringe, rievocando la sequenza di quel trascinamento che strappò via una vita dalla vita: un uomo fu preso, con qualche grammo di droga addosso, portato via, portato nel sotterraneo, portato nell’aula per la direttissima, portato in ospedale, lì lasciato, poi portato al cimitero.Ora le indagini degli scienziati convergono a dire che fu l’ospedale il punto del tracollo, e che Stefano poteva essere salvato da morte, sol che avessero capito, i sanitari, e dato giusto soccorso, al suo stato devastante di malnutrizione. Ma noi dobbiamo ancora verificare tutto il percorso di questa storia e i suoi snodi e i suoi nessi. Gli schemi, i protocolli, le prassi che accompagnano queste vicende. E prendere occasione dalla tragedia sofferta per riflettere sull’intero orizzonte: sulle verità vere e sulle verità convenzionali, fin sulle maschere narrative che a volte insidiano i rapporti e i referti. Che cos’è un uomo, per noi, resta la domanda fondamentale. Che cos’è un uomo perché te ne curi, viene in mente il tremendo interpello del salmo. Un corpo arrestato non diviene corpo vile; al contrario, diviene qualcosa di civilmente sacro, perché in custodia dello Stato. Ciò che l’offende offende lo Stato e la sua civiltà. Le violenze degli "uomini d’ordine" (qualcosa è ancora apparso sul web dei giorni passati) sono un’ingiustizia che disonora lo Stato. Le negligenze di contorno, se vi sono, ricadono sullo Stato.Noi non archivieremo mai le pagine della vergogna, prima che ai deboli sia resa giustizia. Ma trascorrendo dallo scenario della costrizione legale a quello del soccorso terapeutico, una diversa attenzione ci concentra sul responso dei periti: i medici avrebbero dovuto capire che Stefano stava morendo per "inanizione" (mancanza di nutrizione, di sostanza vitale) e non hanno fatto ciò che occorreva. Perché? Forse i loro avvocati diranno: perché Stefano aveva detto di rifiutare le cure, perché Stefano voleva morire. Sarebbe questo l’incrocio ultimo della coscienza umana, fra accoglienza e abbandono; la scelta che può congelare l’altrui solitudine dentro l’imbuto della morte, o invece abbracciarla orientandola alla vita. Ebbene, nel crepuscolo etico che stiamo traversando, questa indicazione di rifiuto soffiata dal dolore d’un uomo percosso in faccia alla morte rassomiglia all’implorata e disperata invocazione di vita dei vinti. Non dovevano ignorarla, non dovevano spegnerla. Se la spegniamo, siamo noi ad averla uccisa.
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