Ambasciatrice del Paese migliore, oltre tutte le sterili polemiche
domenica 10 maggio 2020

Il frastuono delle campane dell’Abbazia di Casoretto – come viene chiamata la chiesa di Santa Maria Bianca della Misericordia di Milano – è durato a lungo. Troppo spesso, nelle ultime settimane, i loro rintocchi sono stati associati all’estremo saluto per le vittime del Covid. Stavolta, invece, si sono mescolati alla musica che fluiva dalle finestre aperte per celebrare – nel rispetto delle regole di distanziamento fisico – la libertà di Silvia Romano.

Non ci sono garanzie che la pandemia ci abbia reso o ci renderà migliori. Di certo, però, ci ha resi affamati di speranza, dopo il lungo digiuno collettivo. Ancor più in questo frammento tanto ferito di Italia. Il rilascio delle 24enne, per 536 giorni nella mani dei carcerieri, dunque, è diventato per la città e il Paese, dentro e fuori i social, il segno di una rinascita possibile. Per tutti. Sono lontane, lontanissime le tristi polemiche che, diciotto mesi fa, avevano accompagnato la notizia del rapimento. Quando tanti – non solo gli odiatori seriali da testiera ma perfino illustri commentatori – avevano dipinto la cooperante di Africa Miele come una sprovveduta a caccia di emozioni forti. O, nel migliore di casi, complice il fatto di essere una giovane e bella donna, una “Biancaneve” finita in un bosco troppo intricato, la cui ingenuità sarebbe costata cara ai contribuenti. Non era la prima volta che accadeva. Il copione velenoso, purtroppo, si ripete puntualmente quando un connazionale viene sequestrato in un Paese “difficile”. Dove si è recato per una ragione spiazzante: costruire isole – piccole, piccolissime rispetto agli enormi problemi mondiali – di cambiamento possibile. Questo fanno gli oltre 10mila italiani impegnati a vario titolo in progetti di cooperazione, servizio civile, volontariato, missione, nel Sud del mondo.

Un cartello di benvenuto sul portone dell'abitazione di Silvia Romano, a Milano

Un cartello di benvenuto sul portone dell'abitazione di Silvia Romano, a Milano - Fotogramma

Silvia Romano è una cooperante: professione che, per lei come per tanti, è anche una vocazione, laicamente intesa. Chi lo fa con serietà sa che, come tutte le scelte autentiche, implica sacrifici, rischi, errori. Sa anche, però, che non farlo equivarrebbe a guardare la vita dal balcone, per parafrasare papa Francesco. Certo che non è necessario andare all’estero per fare del bene. Tanti, però – per fortuna, visto il contributo importante – sentono questa disposizione. E hanno il coraggio di seguirla. Non come colpo di testa. Non ci si improvvisa cooperanti né volontari e nemmeno missionari. Per essere utili agli altri – ancor più in un contesto geograficamente e culturalmente lontano – è necessaria una solida formazione. Per questo Silvia è partita in Kenya con una laurea specifica e una tesi sulla tratta. Aveva poca esperienza, obietterà qualcuno. Vero, come tutti coloro che si affacciano sul mondo del lavoro e si mettono in gioco. Con cuore e testa. Lo scorso 5 ottobre Eva Pastorelli, responsabile Focsiv, alla premiazione del Volontario dell’anno, ha letto questo messaggio alla collega sequestrata: «Non siamo delle “ingenue, un po’ folli, illuse di poter cambiare il mondo”. Siamo donne generose e tenaci, consapevoli che i piccoli gesti possono fare la differenza nel costruire un
mondo migliore, per tutte e tutti. Siamo donne che hanno preso una posizione. Abbiamo scelto».

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