Quei tre tocchi dell'angelo (Oltre la paura)
domenica 17 luglio 2022

La visione nuova è lo sviluppo della notte beata della fede. È allora che l’anima, porgendo l’orecchio e dimentica delle pareti della casa, sentirà quella parola che le è stata promessa: sarai mia sposa per sempre

Paul Claudel, Presenza e Profezia

Nella Bibbia sono le persone, non i gruppi, a essere chiamati per nome. E anche se la chiamata ha sempre una dimensione collettiva e comunitaria, all’inizio c’è una persona concreta (Abramo, Mosè) che incontra una voce con la quale stabilisce un dialogo. Questi tu-a-tu tra YHWH e una singola persona sono il fondamento più profondo e radicale del personalismo dell’umanesimo biblico, cristiano e occidentale. Certo, anche la filosofia greca, qualche secolo dopo l’inizio del profetismo biblico, ha detto qualcosa di simile (si pensi al daimon di Socrate); ma nella Bibbia questo dialogo tra il Dio unico e trascendente e l’umanità, che si svolge dentro colloqui con singoli individui, è una dimensione costante, essenziale, fondativa.

Racconti di parole divine destinate a tutti, ricevute durante incontri bocca-a-bocca, sono la grande eredità dei profeti. E tutto ciò è davvero sorprendente se pensiamo a quanto piccolo fosse ancora lo spazio del singolo dentro la comunità. I profeti hanno allargato questo spazio, si sono introdotti come piante nelle crepe della comunità, riuscendo a far crollare i muri per dar vita a una casa senza porte, finestre e tetto, dove lo Spirito poteva soffiare dal cielo e dall’intera rosa dei venti della Terra. Basterebbe solo questo per capire il dono straordinario che rappresenta la Bibbia per tutti, credenti e atei: ci ha insegnato a dare del tu anche a Dio.

«L’anno terzo di Ciro, re dei Persiani, fu rivelata una parola a Daniele, chiamato Baltassàr. Vera è la parola e grande è la lotta» (Daniele 10,1). Questa ulteriore visione di Daniele è collocata al termine dell’esilio babilonese (cioè attorno al 535, tre anni dopo l’Editto di Ciro del 538 a.C.). Mentre si trovava sulla sponda del Tigri (o dell’Eufrate) gli apparve «un uomo vestito di lino, con ai fianchi una cintura d’oro di Ufaz; il suo corpo somigliava a topazio, la sua faccia aveva l’aspetto della folgore, i suoi occhi erano come fiamme di fuoco, le sue braccia e le sue gambe somigliavano a bronzo lucente» (10,5-6). Forse è ancora l’angelo Gabriele del capitolo 8, o, per qualche esegeta, forse il misterioso "Figlio dell’uomo" del capitolo 7. Non lo sappiamo. Ciò che conta è l’effetto che la visione produce su Daniele.

Prima, però, il testo ci offre un dettaglio che arricchisce la grammatica della vocazione profetica che si sta delineando seguendo il libro di Daniele: «Soltanto io, Daniele, vidi la visione, mentre gli uomini che erano con me non la videro, ma un grande terrore si impadronì di loro e fuggirono a nascondersi. Io rimasi solo a contemplare quella grande visione» (10,7-8). Il primo episodio che ci viene in mente è la vocazione di Saulo-Paolo narrata dagli Atti degli apostoli (9,7), forse influenzata da questo capitolo 10 di Daniele, dove i suoi compagni si erano «fermati ammutoliti». La teofania è percepita dal gruppo dei compagni, ma è il solo Daniele, è il solo Saulo che vede e ascolta la voce. Nelle vocazioni il "noi" è uno spazio troppo angusto, solo l’anima individuale è abbastanza larga e profonda per accogliere un dialogo infinito.

Il libro di Daniele è un distillato delle vocazioni profetiche "classiche", di cui il suo autore si è nutrito. In questo capitolo 10 incontriamo di nuovo, e più intensamente, una nota fondamentale delle grandi vocazioni bibliche: la paura. Daniele racconta: «Mi sentivo senza forze, il mio colorito si fece smorto e mi vennero meno le forze. Udii il suono delle sue parole, ma caddi stordito con la faccia a terra» (10,8-9). Non dobbiamo mai dimenticare che nel mondo antico, Bibbia inclusa, la dimensione principale e fondamentale dell’esperienza dell’incontro col divino è quella del tremendum. I vivi non vedono né odono Dio. I profeti sono delle grandi e rarissime eccezioni a questa regola universale, perché hanno il compito di incontrare e udire il divino per trasmetterlo poi a tutti. Per poter incontrare Dio i profeti sperimentano una certa morte. Quando bucano il velo della soglia tra terra e cielo, e si ritrovano in un’altra dimensione, non vivono questi incontri come qualcosa di gioioso o pacifico. Sperimentano invece sgomento, insicurezza e a volte autentico terrore. I dialoghi festosi e romantici tra Dio e le anime sono merce recente, e sono molto distanti dalle vocazioni bibliche dove Dio parla su una umanità tramortita – quando i dialoghi con Dio ci lasciano troppo tranquilli e felici è probabile che stiamo parlando, in buona fede, con noi stessi o, peggio, con qualche idolo.

Il profeta è un essere «grandemente prediletto» (Dn 10,11), ma la sua non è una predilezione espressa in termini di gioia. Felicità non è la parola più adatta a descrivere una chiamata profetica e in genere l’umanesimo biblico. I profeti non sono felici: sono inquieti, simili a Marta che si affanna, e la parola li raggiunge mentre sono affannati nello svolgimento del loro compito. Sono soli, mendicanti di parole che non controllano e non possiedono, vivono con una continua e crescente sensazione di fallimento e di inadeguatezza. Non sono mai all’altezza morale delle parole che trasmettono agli altri, ma non se ne preoccupano perché sono interessati alla salvezza del popolo, non alla propria – vorrebbero che il paradiso esistesse, anche se loro, in molti momenti, sono certi di andare all’inferno. I falsi-profeti sono invece uomini del successo, hanno facce serene e gioiose, si presentano come l’incarnazione definitiva delle parole che annunciano agli altri, sempre perfettamente a loro agio nell’esercizio del loro mestiere.

Ma Daniele non è abbandonato in balìa delle sue paure, conosce una strana e diversa compagnia. Mentre è stordito, disteso con la faccia a terra, «una mano mi toccò e tutto tremante mi fece alzare sulle ginocchia, appoggiato sulla palma delle mani» (10,10). Una mano mi toccò: è la mano di un angelo, forse Gabriele. Torna il tocco di Dio ai profeti attraverso i suoi angeli. Come Elia, che mentre si trovava depresso sotto la ginestra fu toccato dall’angelo di Dio e riuscì a rialzarsi (I Re19,4-8), anche Daniele ora è destato da un tocco, è risvegliato per contatto. Per uscire da certe paure e depressioni spirituali non sono sufficienti le parole, c’è bisogno di sentire un tocco nella carne. La parola, che nella Bibbia è quasi tutto, qualche volta non basta per svegliare i profeti. Hanno bisogno di essere destati da una mano, di essere toccati nella loro intera umanità; dalla mano di Dio, ma anche dalla mano di un amico che invece di dire parole edificanti parla loro con le parole mute di un gesto del corpo: una tazza calda, una passeggiata insieme, una camicia stirata. Con questo tocco, Daniele da disteso si mette carponi: sulle ginocchia, appoggiato sulle mani. Quindi l’angelo gli parla e gli dice: «"Alzati in piedi, perché ora sono stato mandato a te". Quando mi ebbe detto questo, io mi alzai in piedi tremando» (10,11).

Dopo il tocco, ora è una parola che consente a Daniele di compiere un secondo movimento e mettersi finalmente in posizione eretta. Lo seguiamo in questo "elevarsi a tappe" del corpo, ma la paura non passa ancora. L’angelo gli rivolge allora un discorso, dove fa la comparsa nella Bibbia un nuovo angelo amatissimo dai cristiani e protettore del popolo di Israele: «Michele, uno dei prìncipi supremi, mi è venuto in aiuto» (10,13). Michele lo aveva aiutato per sconfiggere in cielo l’angelo protettore della Persia. L’angelo dice a Daniele: «Non temere, perché fin dal primo giorno in cui ti sei sforzato di intendere (...) le tue parole sono state ascoltate e io sono venuto in risposta alle tue parole» (10,12). Daniele invece continua a temere, quelle parole consolatorie dell’angelo non sono sufficienti a sconfiggere la sua paura: «Mentre egli parlava con me in questa maniera, chinai la faccia a terra e ammutolii» (10,15). Ora alla paura si aggiunge il mutismo: come Ezechiele (Ez 3,26), anche Daniele incontrando il divino perde l’uso della parola. Ed ecco un secondo tocco d’angelo: «Uno con sembianze di uomo mi toccò le labbra: io aprii la bocca e parlai» (10,16).

Ora è la bocca a essere toccata, un tipico gesto della tradizione profetica (Is 6,6; Ger 1,9). Daniele dopo il tocco riprende a parlare, e subito dice all’angelo: «Signore mio, nella visione i miei dolori sono tornati su di me e ho perduto tutte le energie» (10,16). Daniele è ancora sfinito. Due tocchi e molte parole di benedizione non sono bastati. L’angelo sta dicendo a Daniele parole meravigliose – «uomo grandemente prediletto», «le tue parole sono state ascoltate», «sono venuto in risposta alle tue parole» –, eppure quelle parole buone non riescono a consolarlo. I profeti, per vocazione, rinunciano alle proprie consolazioni per rendere vere le nostre; fanno come il pianista che per emozionarci con la sua musica non deve consumare per sé la propria emozione. Sono grandi consolatori, ma neanche Dio riesce a consolare un profeta, perché la sua sconsolazione è la ferita dove passano le benedizioni per noi, è la fessura-pupilla attraverso la quale Dio ci guarda e noi guardiamo Dio.

Chi osserva i profeti combattere dentro le loro notti piene di sogni stupendi e tremendi quasi mai capisce, qualche volta fugge a nascondersi, sempre si preoccupa, perché non può concepire che un incontro con Dio e gli angeli possa fare così male. Basterebbe invece un po’ di amicizia con la Bibbia per capire che angoscia, paura, luce e amore sono facce dello stesso poliedro profetico.

Per fargli superare il suo stato di prostrazione, a Daniele giunge un terzo tocco e una seconda parola: «Allora di nuovo quella figura d’uomo mi toccò, mi rese le forze e mi disse: "Non temere, uomo prediletto, pace a te, riprendi forza, rinfràncati"» (10,18-19). Elia ebbe bisogno di due tocchi dell’angelo per ricominciare a vivere, a Daniele ne servono tre per riprendere forza e pace. Certe prove e paure spirituali – nostre e di chi ci sta vicino – non si superano, o passano invano, solo perché ci fermiamo al primo tocco. La parola profetica è tutta cielo e tutta terra, è tutta spirito e tutta carne. È dunque tempo, è storia.

Quando dopo un incontro vero con la voce che ti svela il tuo compito e il tuo posto al mondo ti ritrovi tramortito, senza energie e con la faccia a terra, non rimetterti subito in piedi. Prendi tempo, poi senza fretta prova a metterti sulle ginocchia e sulla palma delle mani: è la postura della preghiera. E lì, in ginocchio, attendi altri tocchi dal cielo. Ma nell’attesa non dimenticarti che stai già parlando con angeli bellissimi.

l.bruni@lumsa.it

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