Le buone misure del potere
sabato 4 giugno 2022

Ciò che distingue in modo particolare il Dio degli ebrei è che è un Dio che parla. Per questo i profeti sono preminenti nella tradizione giudaica
Jacques Lacan. Il seminario​

La profezia è mistero di una infinita libertà e di una altrettanto infinita non-libertà. È l’esperienza più libera di fronte agli uomini che ci possa essere sulla terra perché è l’esperienza meno libera di fronte alla voce che abita il profeta e gli parla. Dovendo, a tutti i costi, obbedire a quella voce diversa, i profeti devono, a tutti i costi, disubbidire a tutte le altre voci che cercano costantemente di manipolare la loro voce, gratuita perché libera. Ogni fedeltà assoluta e perfetta è infedeltà assoluta e perfetta a tutto ciò che corrompe quella fedeltà vocazionale prima. I profeti sono questo intreccio vitale inestricabile di obbedienza e disubbidienza, di fedeltà e infedeltà, di gratuità e obbligo. Quindi di amore per i doni e odio per i regali. Perché i regali sono espressione di rapporti di potere che rafforzano il potere (regalo proviene da rex, regis: re). Nella Bibbia i regali sono, quasi sempre, doni senza gratuità, offerte al (o dal) re e ai (o dai) capi al solo o primo scopo di consolidare la gerarchia, per dire – con il linguaggio muto e potente delle cose – chi comanda davvero e chi è servo/a, magari circondato/a da regali-lacci.

«Fu allora introdotto Daniele alla presenza del re ed egli gli disse: "Sei tu Daniele, un deportato dei Giudei, che il re, mio padre, ha portato qui dalla Giudea?... Se quindi potrai leggermi questa scrittura e darmene la spiegazione, tu sarai vestito di porpora, porterai al collo una collana d’oro e sarai terzo nel governo del regno"» (Daniele 5,13-16).
I sapienti e i maghi caldei non erano riusciti, neanche questa volta, a leggere né tantomeno a interpretare le parole che una misteriosa mano, forse la mano di Dio, aveva scritto sul muro durante un banchetto – «e il re vide il palmo di quella mano che scriveva» (5,5). Questa visione di Baldassàr della mano di Dio è un "luogo" dove la Bibbia ha influenzato le scienze sociali moderne, per l’uso che ne ha fatto, sulla scia di Calvino (Institutio, 1536), l’economista scozzese Adam Smith, che ha centrato, nel 1759, la sua teoria del mercato attorno all’immagine della «Mano» (invisibile), già usata nel 1751 dall’economista napoletano Ferdinando Galiani: «La suprema Mano».

Rivelativa di una dimensione essenziale della profezia biblica è la risposta di Daniele: «Daniele rispose al re: "Tieni pure i tuoi doni per te e dà ad altri i tuoi regali: nondimeno io leggerò la scrittura al re e gliene darò la spiegazione"» (5,17). Il profeta non rivela i misteri per denaro, non risponde a incentivi monetari né di potere. Opera per vocazione, e basta – «nondimeno io...». È questo un elemento-chiave per distinguere i profeti veri da quelli falsi, i filosofi per vocazione (Socrate) dai filosofi per profitto (i sofisti). Una separazione che continua ad attraversare il nostro mondo secolarizzato, dove Daniele e i maghi caldei lavorano ancora gli uni accanto agli altri; ma noi non abbiamo più gli strumenti per distinguerli e così finiamo quasi sempre per interpretare l’alto prezzo delle loro fatture come segnale di qualità dei "profeti", il loro onorario come segno del loro onore.

Dà ad altri i tuoi regali: molte volte nella Bibbia troviamo una forte critica ai doni, ma per capirla dovremmo tradurre doni con regali. Per poter fare il suo dono al re, Daniele deve sgombrare il campo etico dai regali del re. Questa è una operazione essenziale tutte le volte che qualcuno vuole fare un dono-gratuità a chi si trova, oggettivamente, su di un piano gerarchico superiore: il dono diventa possibile se chi dona riesce a mettersi in una condizione di libertà che gli consente di poter vivere la gratuità (non c’è gratuità senza libertà, e viceversa). Sta qui la ragione per cui i doni dei poveri ai potenti sono quasi impossibili, e perché aiutare le persone a uscire dalla miseria significa aiutarli a liberarsi dai regali e poter iniziare a fare doni – gesti che sono quasi impossibili, ma non impossibili sempre, perché qualche volta possiamo essere, in ogni contesto, più grandi del nostro destino.

Ora Daniele, libero grazie alla fedeltà alla sua vocazione, può finalmente interpretare la misteriosa frase che la mano ha vergato sulla parete. La prima parte del discorso di Daniele fa uso solo della memoria. Ricorda a Baldassàr la vicenda di suo padre Nabucodònosor (che forse era il nonno) che nonostante la sua iniziale alterigia, che gli costò la riduzione allo stato bestiale, alla fine si convertì e riconobbe «che il Dio altissimo domina sul regno degli uomini» (5,21). Baldassàr, invece, «non hai umiliato il tuo cuore, sebbene tu fossi a conoscenza di tutto questo» (5,22), e «hai reso lode agli dèi d’argento, d’oro, di bronzo, di ferro, di legno, di pietra, i quali non vedono, non odono e non comprendono» (5,23), e così dal Dio vero «fu mandato il palmo di quella mano che ha tracciato quello scritto» (5,24). Un verdetto chiaro e netto di colpevolezza, che non lasciava molte speranze sul significato di quella scritta. Eccoci finalmente arrivati allo svelamento del mistero: «Questa è la scritta che è stata tracciata: "Mene mene tekel upharsin"» (5,25).

Daniele risolve subito il primo enigma: i maghi e i sapienti caldei non erano riusciti né a leggere né a interpretare la scritta, Daniele legge invece le parole sul muro. Ma quella frase non diceva nulla di comprensibile, neanche al lettore biblico. Doveva suonare simile al dantesco «pape satàn pape satàn aleppe». Daniele quindi svela anche il senso di quelle parole misteriose: «Questa ne è l’interpretazione. Mene: Dio ha contato il tuo regno e gli ha posto fine; Tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente; Upharsin: il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani"» (5,26-28).

Questo verso di Daniele è tra i più commentati della Bibbia, perché tra i più controversi. Rabbini antichi e moderni, Padri della Chiesa, teologi ed esegeti hanno offerto diverse letture (anche per le lievi differenze tra il testo ebraico e quello greco dei Settanta). Il libro di Daniele spiega dunque le parole "mene", "tekel" e "upharsin" come: "contato", "pesato" e "diviso". Alla luce di alcune iscrizioni rinvenute a fine Ottocento, questi riferimenti a contare, pesare e dividere fecero avanzare una ipotesi che oggi convince buona parte degli studiosi: le parole del graffito murale erano in origine delle monete babilonesi. E per un economista (come me) non è poco; anzi è molto. Mene era la mina, tekel lo shekel, cioè il siclo, upharsin sono le due parti di una mina spezzata. Ecco svelato l’arcano: mina, mina, shekel, due mezze mine. Monete che potrebbero dire al re Baldassàr: tuo padre Nabucodònosor era una mina, tu sei uno shekel (cioè un cinquantesimo di mina), ovvero vali poco, e il regno babilonese è una mina destinata a essere spezzata in due e spartita tra Medi e Persiani. Gli antichi rabbini erano soliti usare l’espressione «una mina figlio di una mezza mina», per indicare un figlio eccellente di un padre modesto. Nell’antichità le monete nascevano come misure di volume e di peso – uno shekel pesava attorno ai dieci grammi, la libra latina significava in latino bilancia. Quindi: contati (i giorni di Nabucodònosor), pesato (il valore infimo di Baldassàr), diviso (il regno del padre tra Medi e Persiani).

La presenza molto probabile di monete nella misteriosa scritta divina ci dice molte cose. Babilonia era una superpotenza economica e finanziaria, e quindi il linguaggio delle monete era universale e comprensibile al vasto pubblico. In quel mondo anche Dio per mandare messaggi usava monete. Per dirci che in una società dove l’economia e la finanza sono molto importanti (a Babilonia esistevano molte banche), Dio deve imparare a parlare il linguaggio delle monete e dell’economia. Almeno lo devono imparare i profeti. E quando Dio e i profeti non sanno parlare di economia, o non vogliono parlarne perché la considerano troppo bassa, è la fede che diventa troppo bassa per riuscire a guardare lontano e in profondità il cuore della gente vera.

Il linguaggio delle monete non è linguaggio estraneo alla Bibbia, Antico e Nuovo testamento. Perché non tutti siamo esperti di teologia, ma tutti capiamo, inclusi gli analfabeti, la lingua diversa delle monete – mio zio Domenico non sapeva leggere, ma quando vendeva i polli non sbagliava mai un calcolo di un prezzo. La Bibbia ha usato molto le monete: i 400 sicli d’argento per la tomba di Sarah, i 17.000 del campo di Geremia in Anatot, i due denari pagati all’albergatore, i trenta denari di Giuda, i trecento denari della donna del profumo versato. La Bibbia ha contato, pesato, diviso, per dirci che la vita della gente non può non passare dal contare, pesare, dividere. Forse lo ha fatto persino troppo, quando, in qualche pagina, ha voluto leggere anche i sacrifici nel tempio come pagamenti registrati in una partita doppia tra gli uomini e Dio, e la morte e passione di Gesù Cristo come pagamento del prezzo della salvezza.

Ma nell’usare misure di valore e di peso per dare un messaggio a un re, Daniele ci dice qualcosa, forse, di ancora più importante. Il giorno dopo il banchetto, il 12 ottobre del 539 a.C., l’impero cadde occupato dai persiani. Baldassàr viene assassinato. Quella festa e quella mano misteriosa furono l’ultimo atto dell’impero Babilonese: «In quella stessa notte Baldassàr, re dei Caldei, fu ucciso» (5,30). Baldassàr aveva sbagliato il rapporto con le monete, non aveva saputo contare e misurare: soprattutto aveva sbagliato la misura del suo potere. Il buon governo è sempre questione di misura, saper misurare fin dove spingere le sue forze quando appaiono onnipotenti: ogni potere smisurato è perverso e perverte.

Daniele fece il suo dono al re, gli svelò l’enigma. Fu però un dono tremendo, fu l’annuncio della sua fine, ma in cambio ottenne dal re ricompense e doni – che non erano più il prezzo della sua prestazione profetica. Questi doni del re che arrivano a fronte dello svelamento di un destino di morte è il saluto del libro di Daniele a Baldassàr, un sovrano poco amato dai babilonesi. E così ci lascia un ultimo messaggio prezioso: i doni non sono sempre carini, non ci portano sempre buone notizie. Qualche volta un dono – una parola vera, un incontro inatteso – può ferirci, può essere tremendo, annunciarci un passato, un presente e un futuro che non vorremmo. Il dono resta dono anche quando non ci piace, ci può far bene mentre ci fa male. Daniele fece il suo dono a Baldassàr offrendogli un ultimo momento di verità nell’ultimo giorno della sua vita, e, grazie alla Bibbia, quel dono, tremendo e vero, resta per sempre.

l.bruni@lumsa.it

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