Genova per noi cuore della vergogna
venerdì 17 agosto 2018

Il primo sentimento che ci ha colpito tutti, alla notizia e alla visione del crollo del ponte di Genova, è stata l’angoscia per le vittime.

Il secondo, la compassione, in senso etimologico, “patire insieme”, per i famigliari.

Il terzo, che non se n’andrà più, la vergogna.

Fin dal primo giorno un turista tedesco dichiarò: «Da noi queste cose non succedono». Vero o non vero, che gli stranieri lo pensino ci umilia. La società che gestisce il ponte assicura che la gestione è perfetta, i controlli frequenti, la tecnologia all'avanguardia. Si faceva tutto quello che l’uomo può fare perché il ponte non crollasse. Ma è crollato, fulmineamente. La parola “fulmineamente” ci sta bene, perché qualcuno ha dichiarato che il ponte è caduto perché lo ha colpito un fulmine con la forza di un missile, e il manufatto s’è sbriciolato. La tesi del fulmine ha avuto una sua presa e una sua circolazione.
Anche questo ispira vergogna: scarichiamo le colpe su tutti e su qualunque cosa pur di allontanarle da noi.

Adesso qualcuno, più d’uno, parla di errori di calcolo, nella portata delle campate, nella durata del calcestruzzo, nello sforzo che il manufatto era chiamato a reggere. Terminato 51 anni fa, da allora ad oggi il ponte ha sentito il peso del traffico sul suo groppone crescere del 500 per cento. Oggi sulla sua strada, la A10, transitano 5mila Tir al giorno, e può darsi che questo, o anche questo, sia l’errore di calcolo commesso dal costruttore: non ha previsto il futuro. Quando s’è messo a studiare il progetto transitavano su quella strada 5 milioni di veicoli l’anno, oggi sono 25 milioni.

Ma quando un progettista di grandi costruzioni promette che la sua opera durerà un secolo, deve avere ben chiaro nella mente come sarà quel luogo dopo un secolo. I ponti sono belli, passarci sopra emoziona. Questo, a passarci sopra, faceva paura. Il fondo s’era presto deformato, gli autisti dicevano di sentire che l’auto non filava liscia in orizzontale, ma saliva su piccoli dossi e scendeva in piccole cune. Per questo erano insicuri, e dicevano che il ponte sarebbe crollato. È crollato, i giornali del mondo mostrano la fotografia, e le fotografie sono, per noi italiani, maligne. Una mostra il ponte di fianco, c’è il tratto di destra e quello di sinistra, ma manca la tratta centrale, i due tronconi non si congiungono, come se il ponte fosse ancora da terminare, mentre ahimè è da rifare. Un’altra mostra il tratto di sinistra fino allo strapiombo, col camioncino bloccato con i freni tirati a pochi metri dallo squarcio: è una foto parlante, par di sentire la voce dell’autista che abbandona il mezzo e scappa urlando. Stiamo con l’autista, soffriamo lo stesso panico.

È un trauma collettivo, c’è troppa sofferenza, ci son troppi morti, non c’è risarcimento che tenga. Eppure, ultima vergogna, son passati pochi giorni e tutto diventa una questione di soldi. Il governo vuol cacciare i gestori, i gestori tirano fuori una clausola della concessione che in caso di annullamento “per qualsiasi motivo” prevede verso di loro un risarcimento di circa una trentina di miliardi. La discussione s’impelaga sulla convenienza dell’annullamento e sul diritto dei gestori a un risarcimento. “Per qualsiasi motivo”? Anche per responsabilità? Il senso di vergogna ci viene dal fatto che ci sentiamo in grave colpa verso le vittime. Col passare dei giorni, il senso di colpa aumenta e ormai ci schiaccia.

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