mercoledì 1 febbraio 2023
Quale via d’uscita dopo undici mesi di combattimenti
È improbabile che un conflitto come questo possa condurre a una vittoria certa per una delle parti, con il crollo totale dell’altra: l’auspicio è arrivare a un armistizio, una pace trattata. Nella foto un soldato ucraino porta una croce da collocare sulla tomba di un amico morto durante l’invasione russa

È improbabile che un conflitto come questo possa condurre a una vittoria certa per una delle parti, con il crollo totale dell’altra: l’auspicio è arrivare a un armistizio, una pace trattata. Nella foto un soldato ucraino porta una croce da collocare sulla tomba di un amico morto durante l’invasione russa - .

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L’avvicinarsi della fine dell’inverno riaccende lo scontro in Ucraina. Il riequilibrio delle forze, messo in atto dal generale russo Valerij Gerasimov e finalizzato alla probabile offensiva di Mosca attesa a fine febbraio, è stato ampiamente compensato dal rinsaldato asse tra Stati Uniti e Germania, sancito dall’accordo di inviare oltre ai Leopard, anche gli avanzatissimi carri pesanti statunitensi Abrams. Uno sforzo enorme per la Nato. Il nuovo elenco di armamenti destinati all’Ucraina è impressionante: 30 carri Abrams, 14 Challenger dal Regno Unito, 50 Leopard da Germania, Polonia, Olanda e Norvegia, 60 Bradley, 90 veicoli corazzati Stryker, 350 Humvee, più carri antimine e missili Patriot.

In sostanza si è dato inizio a una pericolosa escalation del conflitto dagli esiti imprevedibili. La pace appare sempre più lontana, quasi irraggiungibile. Stati Uniti e Nato ritengono che un’avanzata ucraina sul campo possa dare la spallata a Putin e che solo a quel punto si possa cominciare a pensare a una pace “equa” per l’Occidente e per l’Ucraina. Questo, nonostante il Capo di Stato Maggiore americano Mark Milley abbia nuovamente ribadito durante il vertice di Ramstein che «è improbabile che l’Ucraina sia in grado di togliere alla Russia tutto il territorio occupato attraverso un’offensiva militare».


Una trattativa può essere imbastita soltanto dalle potenze che in questo momento sono gli attori da cui dipendono le capacità di resistenza: gli Usa e la Nato, e la Cina, che è rimasta nell’ombra ma non ha interesse a veder crollare il suo partner tradizionale

La Russia ha commesso molti errori. Innanzitutto, la strategia originaria per l’attacco e l’invasione dell’Ucraina non è stata il frutto di una elaborazione dello Stato Maggiore di Mosca, bensì “imposta” ai militari dal “cerchio magico” che circonda Putin, gli uomini del Fsb e i funzionari e diplomatici che riferiscono direttamente al Presidente. In questo modo il comando strategico è stato scavalcato, il generale Gerasimov – solo recentemente diventato responsabile diretto delle operazioni in territorio ucraino – era stato inizialmente lasciato ai margini. La guerra è così partita come “operazione speciale”, rispondendo solo in parte ai principi della dottrina della “guerra ibrida”, che prevede anche un conflitto economico, l’utilizzo di tecnologie avanzate e il ricorso a rivolgimenti politici supportati da azioni di disinformazione e di guerra informatica, con un utilizzo spregiudicato di alleanze e forze speciali.

Il piano iniziale, che immaginava un colpo di mano da mettere in atto in un paio di settimane al massimo, era fondato su errate interpretazioni della realtà da parte dei servizi segreti. E soprattutto non aveva contemplato tre aspetti fondamentali: l’eroica capacità di resistenza ucraina, la ritrovata coesione della Nato e del mondo occidentale, un attacco dispersivo su più fronti con “soli” 185.000 uomini contro le forze armate ucraine, che avevano già in forza 750.000 soldati. Un piano suicida dal punto di vista della dottrina strategica classica. Gerasimov, però, al contrario dei precedenti generali russi, comanda anche la forza aerea e la marina e ora che è tornato in gioco le ha costrette a “entrare in guerra loro malgrado”. E nelle ultime settimane, per la prima volta dopo molto tempo, sono ripresi i bombardamenti aerei che l’aviazione, per paura dei missili ucraini, evitava di effettuare. Per lo stesso motivo le navi, tutte posizionate a cento miglia dalla costa ucraina e praticamente inutilizzabili, saranno presto riportate con buona probabilità al posto di combattimento, insieme alla fanteria di marina.

Gerasimov, inoltre, non è “socio in affari” di Putin come il ministro della Difesa Shoigu. E può quindi effettuare l’operazione finora più difficile, ovvero portare Putin dal pensiero tattico di “spione” a un pensiero di coordinamento strategico. Sempre Gerasimov, infine, tiene contatti diretti con il Capo di Stato Maggiore americano Milley e ha una visione globale che va dal Pacifico all’Ucraina, se si pensa alle esercitazioni svolte dall’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai e da lui dirette insieme ai comandanti cinesi e degli altri eserciti asiatici.

Con queste pesanti premesse il 20 gennaio si è svolto a Ramstein il vertice dei quasi cinquanta Paesi del gruppo di contatto sull’Ucraina a cui Kiev ha richiesto nuove armi, missili e carri. Un solo componente non è infatti sufficiente per cambiare il corso di una guerra come questa. I carri, compresi i Leopard 2, sono molto utili soprattutto nel caso di un’offensiva destinata a tagliare le linee nemiche o, addirittura, a isolare la Crimea, oppure a rispondere in maniera mobile e flessibile a un attacco russo. Ma ancora il dibattito della scorsa settimana sui carri Leopard e Abrams è servito a far uscire allo scoperto la Germania, il cui atteggiamento è rimasto ambiguo riguardo l’offensiva ucraina che mira, come noto, a riprendersi non solo i territori conquistati dai russi negli ultimi 11 mesi, ma anche quelli annessi fin dal 2014, come la Crimea.


Una cosa è chiara: fino a oggi si è parlato del destino dei territori occupati e della Crimea. Ma questo non può essere un punto di partenza di nessuna concreta iniziativa per giungere a un’intesa

È tuttavia molto improbabile che da una guerra di logoramento e di posizionamento come questa si possa ipotizzare una vittoria certa per una delle parti, con il crollo totale dell’altra parte: l’auspicio è arrivare a un armistizio, a una pace trattata. Un esito che tuttavia dipenderà dall’intervento di alleanze esterne, oppure dalla tenuta del fronte interno, o ancora dalla capacità degli alleati di continuare a produrre armi e fornire uomini, armamenti e munizioni all’Ucraina.

Questo sfibrante braccio di ferro militare, ma anche politico ed economico sembra non considerare, se non marginalmente, l’eventualità di un ampliamento del conflitto. Un rischio invece molto forte qualora la Russia rispondesse intercettando le forniture all’Ucraina e nei paesi vicini, ad esempio con bombardamenti delle linee di rifornimento Nato tra Polonia e Leopoli. Un possibile effetto domino che potrebbe portare in breve termine al coinvolgimento degli Stati contigui: la Bielorussia, il corridoio di Kaliningrad, gli Stati Baltici, la Transnistria, la Moldavia e, seppur più lontano dall’epicentro bellico, persino i già destabilizzati Balcani.

Lasciare, perciò, che l’escalation tecnologica continui è rischiosissimo. Il problema del sostegno a un’offensiva ucraina tesa a tagliare in due il fronte russo isolando la Crimea, o addirittura attaccandola, non è esente da rischi difficili da ponderare. Putin, e soprattutto Medvedev, hanno più volte ribadito che l’invasione di quei territori equivale all’invasione della Federazione Russa e, nel corso dei mesi passati, più volte la vicenda dell’occupazione della centrale di Zaporizhia è stata utilizzata dalla dirigenza russa come un “ricatto atomico” che potrebbe trasformarsi in una vera e propria risposta tattica nucleare da parte dei russi, qualora la spallata ucraina e della Nato diventasse realtà sul campo.

In questo scenario, mentre la strategia Usa appare chiara, quella europea non solo è appiattita, ma non tenta neppure di definire uno dei temi prioritari di questo conflitto: la collocazione dei confini tra Europa e Federazione Russa nel momento in cui si giungesse a un armistizio o a un’interposizione in un’area strategica per il futuro dell’Unione stessa, quella che va dal Baltico al Mar Nero. Territorio che ha già visto esplodere un conflitto nella ex Jugoslavia, per la ridefinizione delle influenze e dei confini fra gli Stati, e ora ha per oggetto la ridefinizione della frontiera tra democrazie e autocrazie, tra Est e Ovest, tra aree che appartengono all’Europa e possibili “territori ponte” verso l’Eurasia.

A questo punto, in questa situazione, una trattativa di pace può essere imbastita soltanto dalle due potenze che in questo momento sono gli attori da cui dipendono le capacità di resistenza: gli Usa e la Nato che sostengono l’Ucraina, e la Cina che è rimasta nell’ombra ma non ha interesse a veder crollare il suo partner tradizionale che copre tutto lo schieramento occidentale. Uno dei due potrebbe dare il via ad una vera e propria conferenza di negoziazione. Stando agli ultimi eventi e all’impegno sempre maggiore e concreto degli Stati Uniti, appare chiaro che questi sono sempre più direttamente coinvolti e, quindi, è dalla loro politica interna e dalle frizioni tra Repubblicani e Democratici che potrebbe prendere le mosse l’idea di un armistizio. Con l’allineamento della Germania sembra, infatti, che la posizione dell’Europa e della Turchia, che con Draghi, Macron ed Erdogan in prima linea sembrava poter essere chiavi della tregua, sia oggi ben più marginale.

Una cosa è chiara: fino a oggi si è parlato del destino dei territori occupati e della Crimea. Ma questo non può essere un punto di partenza di nessuna concreta trattativa. Una conferenza di pace tra potenze deve prendere il via da accordi sugli armamenti (uso dell’arma nucleare, droni, sottomarini, missili balistici), per condurre a un contesto geoeconomico in cui sia prevista l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, che definisca gli aspetti della sicurezza, del ruolo della Nato, e che offra soluzioni diplomatiche “creative” per i territori e i “corridoi” del Donbass (ricordiamo che il Territorio Libero di Trieste fu inventato subito dopo la II guerra mondiale per evitare un nuovo possibile scontro tra Russia e Occidente) e, solo in ultima istanza, affronti la questione dello status della Crimea.

Presidente Asce - Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia Docente di Studi Strategici


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