Trump: «L'accordo è possibile». Ma Hamas non cede sui punti chiave

Il gruppo islamista chiede che il rilascio degli ostaggi avvenga di pari passo con il ritiro delle truppe israeliane da Gaza. I nodi di Blair e degli ergastolani “di peso” da scarcerare
October 7, 2025
Trump: «L'accordo è possibile». Ma Hamas non cede sui punti chiave
Macerie all'Università islamica di Gaza City
Purché cessi il fuoco, il dopo si vedrà. Sembra essere questo il leit-motif dei negoziati di Sharm el-Sheikh, che si intrecciano con il secondo anniversario del massacro del 7 ottobre. «C’è una reale possibilità che possiamo fare qualcosa – ha detto il presidente americano Donald Trump –. Una volta che l’accordo su Gaza sarà raggiunto, faremo tutto il possibile per assicurarci che tutti lo rispettino». A differenza di tutte le trattative precedenti – che hanno prodotto al massimo due brevi tregue e altrettanti scambi parziali di ostaggi e detenuti –, questa volta tutti vogliono concludere. Lo vuole Trump, che dà il suo nome al piano in venti punti sul quale Hamas e Israele si stanno confrontando attraverso la mediazione di Egitto e Qatar. Lo vuole il premier israeliano Benjamin Netanyahu, pressato dalle manifestazioni di piazza per riportare a casa gli ultimi 48 ostaggi (venti sarebbero vivi). Ne ha bisogno Hamas, o quel che ne resta, dopo che il gruppo islamista che dal 2007 ha il controllo civile e militare di Gaza è stato decimato dalla potenza di fuoco israeliana. Lo vogliono i Paesi arabi, che contano di svolgere un ruolo importante nella ricostruzione. I primi a volerlo, per quanto assenti dalle trattative, sono i 2,2 milioni di palestinesi che abitano la Striscia. Ombre di quello che erano due anni fa, non c’è famiglia esente da lutti. Sfollati erranti che pietiscono acqua, cibo e medicinali.
Dopo ventiquattr’ore di consultazioni, nel Sinai sul Mar Rosso, sembrano emersi alcuni punti fermi. Il primo: non si discute, per ora, del futuro assetto della Striscia. Troppo distanti le posizioni di Israele, che rigetta in maniera assoluta la possibilità di uno Stato palestinese, e di Hamas, disposto a uscire di scena solo a condizione che a gestire l’enclave siano personalità palestinesi e non certo l’ex premier britannico Tony Blair e tantomeno Trump, com’è scritto nel piano. Secondo punto: i tempi del (progressivo) rilascio degli ostaggi sono legati a quelli del progressivo ritiro dei soldati israeliani dalla Striscia. E qui le posizioni stridono: Netanyahu ha assicurato ai suoi che l’esercito resterà a occupare, quanto meno, il corridoio che separa la Striscia dall’Egitto e una zona cuscinetto interna al perimetro dell’enclave. Hamas avrebbe condizionato il rilascio del primo rapito al ritiro delle truppe dai quartieri residenziali (in primis, Gaza City), e dell’ultimo all’uscita definitiva dei soldati dalla Striscia. Terzo punto: per l’accordo serviranno garanzie internazionali. Andrà capito chi sarà a fornirle e in che cosa consisteranno. Se è vero che diversi Paesi arabi ed europei (compresa l’Italia) si sono fatti avanti per partecipare alla «costruzione della pace», è vero anche che le ultime dichiarazioni di Netanyahu e dello stesso Trump rischiano di complicare il ruolo dei garanti. Non che siano sostanzialmente diverse dalle precedenti, peraltro.
Netanyahu si è detto ottimista: «Siamo vicini alla fine della guerra». Per correggersi nella stessa frase: «Ma non ci siamo ancora». Esercizi di equilibrismo, di cui è campione, nel tentativo di assecondare le richieste della maggioranza dei cittadini (il 72% chiede la fine della guerra) e quelle, inconciliabili, dell’estrema destra messianica alleata di governo che vorrebbe il Grande Israele dal Giordano al mare. «Ciò che è iniziato a Gaza finirà a Gaza – ha detto –. Israele è emerso come il Paese più forte della regione ma abbiamo ancora delle cose da fare per completare la vittoria». Parole non dissimili da quelle rivolte da Trump al Forum delle famiglie degli ostaggi, ringraziandole per avere appoggiato la sua autocandidatura al Nobel per la pace: «Ho deciso di riportare a casa tutti gli ostaggi e di garantire la totale distruzione di Hamas». Risoluzione unilaterale che non richiederebbe negoziati.
E invece a Sharm el-Sheikh le delegazioni – quella israeliana, guidata dal ministro Ron Dermer con i capi dell’intelligence, quella di Hamas con il leader politico Khalil al-Hayya e quella americana, con l’inviato della Casa Bianca Steve Witkoff e il genero di Trump, l’imprenditore Jared Kushner, oltre ai mediatori egiziani e qatarini – tornano a incontrarsi per il terzo giorno. Attesi il premier del Qatar, al-Thani e l’intelligence turca. Fra i punti da risolvere, i nomi dei detenuti da scarcerare. Hamas vorrebbe diversi ergastolani: quel Marwan Barghuti che in Cisgiordania è acclamato come un leader , Ahmad Saadat, Hassan Salameh, Abbas a-Sayed e altri. Difficilmente il governo Neyanyahu spalancherà le porte delle celle a cuor leggero. Eppure l’accordo si deve trovare. L’alba stamani è spuntata a Gaza sulle macerie, nel terzo anno di guerra.

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