Solo la giustizia può dare una casa alla Palestina
di Luca Foschi
Cosa nascerà nel cuore dei gazawi dopo il massacro? Sarà nuovo, invincibile odio o anelito alla riconciliazione?

È una storia errante, eternamente osteggiata, segnata dalla divisione interna, quella dello Stato palestinese. Dalla fine dell’impero ottomano a oggi sono tante le griglie politico-amministrative poggiatesi sulla nazione: il mandato britannico, la tutela egiziana e giordana a Gaza e in Cisgiordania, la piena occupazione israeliana e l’Autorità palestinese emersa dagli accordi di Oslo, erede della lunga esperienza resistenziale. Il proto-Stato dell’Olp, germogliato in un’architettura clientelare del potere, ha seguito le vicissitudini di Fatah e di Yasser Arafat nel lungo esilio del sogno di liberazione. Prima a Gerusalemme Est, poi, dopo la “Naqsa” del 1967, nei campi profughi giordani. Due anni appena prima che con il sanguinoso “Settembre nero” la resistenza fosse costretta a traslocare in Libano. Nella memoria del Paese dei cedri la travagliata epopea si sarebbe cristallizzata nella “Repubblica di Fakhani”, espressione usata per descrivere con disprezzo l’aliena presenza dei guerriglieri, accolti e odiati nel tragico ginepraio della guerra civile. Da Beirut ovest a Tunisi, a osservare da lontano la spontanea ribellione della prima Intifada, e raccoglierne i frutti a Ramallah, con gli accordi di Oslo. La breve guerra civile che nel giugno del 2007 ha consegnato la Striscia di Gaza ad Hamas non ha cancellato del tutto l’agire dell’Autorità palestinese, la cui presidenza è passata, nel frattempo, al diplomatico e remissivo Abu Mazen (Mahmoud Abbas). Ramallah ha continuato a finanziare scuole e ospedali, a coordinare con Israele, Hamas e la comunità internazionale il flusso dell’energia, degli aiuti e delle ingenti donazioni. Si è ostinata a pagare gli stipendi degli ostracizzati dallo spietato spoils system del movimento islamico. Permanere nella vasta prigione di Gaza, in attesa di un cambiamento.
La guerra seguita all’attacco del 7 ottobre ha non solo massacrato la popolazione, affamato, sfollato e demolito, ma ridotto ai minimi termini gli uffici e le infrastrutture che hanno sorretto per quasi venti anni l’egemonia di Hamas. Secondo l’ultima analisi statistica disponibile, quella del Centro palestinese per la ricerca politica e i sondaggi guidata dal celebre sociologo Khalil Shikaki, pubblicata il 6 maggio, in Cisgiordania solo un cittadino su cinque è soddisfatto del presidente Abu Mazen. L’81% ne auspica le dimissioni. Centri di ricerca americani ed europei, think-tank privati, istituti e Ong palestinesi registrano lo stesso fenomeno, la stessa percezione: in Cisgiordania l’Autorità palestinese è diventata un piccolo, odioso regime fondato sulla corruzione e l’inefficienza. Molti studi dimenticano tuttavia di inserire fra le cause fondamentali il pervasivo potere deformante dell’impresa coloniale sionista, l’abbandono da parte della comunità internazionale, lasciando che a spiegare l’inettitudine politica sia una sorta di inestinguibile difetto antropologico. Il pregiudizio vince sulla storia nella narrazione del conflitto israelo-palestinese. La progressiva riduzione di Gaza a deserto lunare, la tragica occasione che questa rappresenta, ha già nel 2024 sollecitato, su spinta dell’Amministrazione Biden, l’Autorità palestinese ad affrontare un processo profondo di riforme, l’ultimo di una lunga serie di tentativi. Il presidente Abu Mazen e il primo ministro Mohammad Mustafa hanno accelerato il passo, caricando il 19° governo di 60 “impegni”, distribuiti in sette categorie: amministrazione, servizi, sistema giuridico, corruzione, economia, politica, lavoro e protezione sociale. È stato promesso che entro
il 2025 si terranno le elezioni per il Consiglio nazionale palestinese, sostituito per vent’anni dagli opachi e indiscussi decreti presidenziali. Fra le nebbie del piano trumpiano di ricostruzione e amministrazione di Gaza anche la possibilità che una riformata Autorità palestinese possa, in un futuro remoto, tornare al governo, per la prima volta con la dignità di Stato. Ramallah intende farsi trovare pronta, ha riformato il sistema di sussidi alle famiglie dei palestinesi “morti per la causa patriottica”, che Tel Aviv definisce “pagare per uccidere”, e promesso di spegnere la retorica presente nelle scuole, dai libri agli insegnanti, percepita come fondamento dell’odio da Israele e dai donatori occidentali. Da una parte la verticale pedagogia della pace, dall’altra la quotidiana cronaca dell’occupazione. Versioni del reale in conflitto, soprattutto a Jenin, Nablus, Tulkarem, Hebron, dove il vuoto dell’Autorità, la miseria, lasciano spazio ai discorsi più radicali. Cosa nascerà nel cuore dei gazawi dopo il massacro? Sarà nuovo, invincibile odio o anelito alla riconciliazione? Solo la giustizia potrà dare finalmente casa allo Stato errante, alla nazione dispersa. Un’imperdibile opportunità di redenzione per la comunità internazionale, e le sue immemorabili omissioni.
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