Sara e i 200mila che non lasceranno Gaza. «Dove andremo?»
di Redazione
Nelle parole di una volontaria della Mezzaluna Rossa, il dramma quotidiano di chi vive nella Striscia: nessuno può aiutarci. La moltitudine di scudi umani rimasta nel limbo è pronta al peggio

«Non ho altra scelta se non quella di rimanere dove mi trovo. È arrivato l’ordine di evacuazione che ci dice di andare a sud. Ma io vivo con mia madre anziana e mia sorella, e a mala pena riusciamo a mangiare. Andare a sud costa troppo. Nessuno può aiutarci, non ci resta che pregare», scrive ad Avvenire, dal campo di al-Karameh, nord di Gaza City, Sara, trentasettenne volontaria della Mezzaluna Rossa. Almeno 200mila persone, ha calcolato l’esercito israeliano, non abbandoneranno Gaza City nonostante l’assedio, vivendo lo stesso destino di Sara. Troppo stanchi, poveri, malati, vecchi e affamati dalla dilagante carestia per partire.
Resteranno invece intrappolati fra “Gideon’s chariots 2”, il piano del capo di Stato maggiore Eyal Zamir per la progressiva occupazione di Gaza City e lo stritolamento di Hamas, e il “Bastone di Mosè”, la strategia di guerriglia sostanziata da sortite dai tunnel, esplosivi artigianali e propaganda del movimento islamista. Il completamento dell’antitesi narrativa segna l’inizio della fase più devastante dell’assedio: in mezzo una moltitudine di scudi umani involontari e impotenti. Gli altri, almeno 70mila fino a oggi secondo Zamir, vengono già spinti verso i governatorati meridionali dove l’Idf ha promesso un rafforzato sostegno alimentare e sanitario. Il sud di Khan Yunis e Rafah, terre desolate di morte quotidiana per bomba o per fame, dove gli 800mila evacuati della capitale occuperanno l’insignificante spazio rimasto erigendo l’ennesima sconfinata tendopoli di disperazione e malattia.
Sono almeno 54 i palestinesi uccisi ieri nella Striscia, 31 solo a Gaza City, sette mentre andavano in cerca di acqua e cibo, tre per cause legate alla malnutrizione. Ieri il Forum dei familiari degli ostaggi ha chiesto ancora una volta al premier Netanyahu e all’amministrazione americana di «far sedere intorno al tavolo delle trattative i team negoziali fino al raggiungimento di un accordo», specialmente dopo che sia Hamas che il governo «hanno espresso il desiderio di raggiungere un’intesa per facilitare il ritorno di tutti i rapiti».
In un’intervista rilasciata mercoledì all’emittente al-Arabya, ma diffusasi ieri, l’uomo d’affari americano-palestinese Bishara Bahbah ha reso noto di aver presentato ad Hamas una proposta che prevede la fine del conflitto in cambio della consegna di tutti i 48 ostaggi, venti dei quali ancora in vita. I dubbi dei leader del movimento islamista sulla serietà dell’iniziativa si sarebbero appianati davanti al messaggio scritto dal presidente Trump sul social Truth: «Non mi accorderò per due, o cinque, o sette. Consegnate tutti gli ostaggi e le cose cambieranno in fretta, tutto finirà!». Hamas avrebbe a questo punto offerto una risposta.
Per sabato, giorno in cui diventeranno 700 i giorni di guerra, il Forum ha organizzato un’altra manifestazione di massa, l’ennesima spinta a un esecutivo diviso che durante l’ultimo gabinetto di sicurezza ha mostrato molte perplessità sulle operazioni a Gaza City. «Lo Stato di Israele è a un bivio fatale: perdita totale di direzione o vittoria e ripristino, tutto dipende da una sola decisione coraggiosa», hanno dichiarato in una nota i familiari degli ostaggi. La prima occasione potrebbe esser stata la riunione di ieri sera, durante la quale il premier Netanyahu ha discusso con i principali esponenti del governo la situazione della sicurezza in Cisgiordania. Secondo fonti del quotidiano Jerusalem Post i rappresentanti militari hanno avvertito i ministri sulla possibilità che «la Cisgiordania possa esplodere all’istante».
Profonda crisi economica e quotidiane incursioni dell’esercito e dei coloni ultra-ortodossi stanno mettendo a dura prova la silenziosa e strategica pazienza delle forze politiche palestinesi. Cancellata all’ultimo momento dall’ordine del giorno la discussione sull’annessione, che alcuni giornali davano come possibile. Il primo a lanciare l’ipotesi è stato il ministro degli Esteri Saar, che l’ha immaginata come ritorsione per il riconoscimento dello Stato palestinese, annunciato da una pattuglia di Stati guidata dalla Francia per l’Assemblea generale dell’Onu di fine mese. Cruciale, l’intervento degli Emirati Arabi Uniti, primo firmatario degli Accordi di Abramo fortemente voluti da Washington: «L’annessione della Cisgiordania occupata rappresenta per noi una linea rossa da non oltrepassare», ha detto la vice-ministra degli Esteri Lana Nusseibeh. Se alla delegazione palestinese sono stati negati i visti per arrivare al Palazzo di Vetro, il presidente francese Macron si è visto respingere la richiesta di visitare la Cisgiordania: «Ritira la decisione di riconoscere uno Stato palestinese e potrai venire», gli avrebbe risposto Netanyahu secondo l’emittente Kan. La strategia diplomatica israeliana coinvolge anche il presidente Isaac Herzog, che visiterà Londra giovedì prossimo incontrando «figure politiche di alto livello» ma non, al momento, il premier Starmer, intenzionato a seguire l’iniziativa di Macron all’Onu.
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