«Riuscirò a mangiare oggi?». Perché a Gaza la fame è un'arma di guerra

La denuncia-appello di 115 organizzazioni non governative: scorte di cibo esaurite, siamo vicini a una carestia di massa. La replica di Tel Aviv: diritto internazionale rispettato
July 23, 2025
«Riuscirò a mangiare oggi?». Perché a Gaza la fame è un'arma di guerra
Reuters | Bimbi palestinesi in fila per il cibo a Rafah, nel sud di Gaza
Ogni mattina, i gazawi si svegliano con il medesimo chiodo fisso: «Riuscirò a mangiare?». Un interrogativo che ossessiona ormai qualunque abitante della Striscia, indipendentemente da età, genere, professione: «Con le scorte di cibo ormai completamente esaurite, vediamo i nostri stessi colleghi e partner consumarsi sotto i nostri occhi». Inizia così il toccante appello scritto e firmato da 115 organizzazioni umanitarie impegnate nell’enclave per mettere fine alla «carestia di massa». Grandi Ong come piccole associazioni di differenti Paesi e orientamento religioso. Dal Muslim Aid al Christian Aid, allo Scottish Catholic international aid fund. Dall’Islamic relief a Caritas Gerusalemme, a Caritas Internationalis, Caritas Germania, all’Agenzia cattolica per lo sviluppo oltremare (Cafod), all’ecumentica Chiese per la Pace in Medio Oriente, alla rete delle Chiese battiste americane per la giustizia. E ancora varie Pax Christi, Cisde, Medici senza frontiere, Amnesty International, Action Aid, Azione contro la fame, Oxfam, Consiglio norvegese per i rifugiati, Save the children. Voci differenti, unite nel medesimo grido: lasciateci aiutare.
«Le agenzie umanitarie hanno la capacità e le risorse per rispondere alla crisi su larga scala. Ma non possono impiegarle». L’appello – al confine tra supplica e denuncia – è rivolto al governo israeliano, le cui «restrizioni, ritardi, vincoli hanno creato caos, fame, morte». Nel mentre, «appena fuori Gaza, nei magazzini – e persino già all’interno del territorio dell’enclave – tonnellate di cibo, acqua pulita, forniture mediche, materiali per l’edilizia abitativa e carburante restano bloccate in attesa che venga consentito alle organizzazioni umanitarie di consegnarle. Uno scandalo che, oltre a Tel Aviv – sottolineano i sottoscrittori – chiama in causa direttamente la comunità internazionale: «I governi devono smettere di aspettare il permesso per agire». Per porre fine all’assedio, il documento chiede con urgenza l’adozione di misure concrete da parte dei Paesi esteri, tra cui «l’interruzione del trasferimento di armi e munizioni. Accordi frammentari e gesti simbolici, come lanci aerei o accordi di aiuti imperfetti, servono da cortina fumogena per l’inazione. Non possono sostituire gli obblighi legali e morali degli Stati di proteggere i civili palestinesi e garantire il loro diritto all’assistenza».
Il governo di Benjamin Netanyahu, da parte sua, nega ogni responsabilità. «A Gaza non c'è una carestia causata da Israele. C’è una carenza artificiale, progettata da Hamas», ha risposto il portavoce David Mencer mentre il presidente Isaac Herzog, nella prima visita ai soldati nella Striscia, ha assicurato che «Israele rispetta il diritto internazionale». Da quasi un anno, Tel Aviv accusa il gruppo armato di rubare gli aiuti per comprare la fedeltà della popolazione. Il Cogat, l’agenzia che amministra la Striscia e la Cisgiordania, sostiene che dal 19 maggio siano entrati nell’enclave 4.500 convogli. Nell’ultimo mese – ammette – c’è stato un calo nella raccolta da parte delle organizzazioni internazionali: 950 camion sono in attesa a Zikim e Kerem Shalom. La causa, secondo l’agenzia, è un imprecisato «collo di bottiglia», indipendente dagli sforzi israeliani. In realtà, spiegano il personale umanitario, è quest’ultima a doverne autorizzare l’accesso alla zona di scarico e carico, appena oltre il valico. I permessi, però, vengono dati con il contagocce.

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