Reinventarsi per narrare l'orrore: ad Haiti la creatività è resistenza
Le bande hanno "chiuso" la redazione di Ayibopost, il principale giornale d'inchiesta dell'isola. Ma i reporter non si sono fermati. Il collettivo di fotografi "2D" trasforma la cr

Il movimento incessante. Quello delle mani di Kasimir, rapide sulla tastiera del pc, intente a montare un video. Quello del corpo di Jetry, in bilico tra le differenti postazioni, mentre alterna chiacchiere a telefonate. Quello degli sgabelli trascinati verso il grande tavolo delle riunioni, man mano che la platea cresce, giornalista dopo giornalista. Le pareti della villa candida d’inizio Novecento sono impregnate di quella frenesia quotidiana. Anche ora che le grandi stanze e il portico sono ormai immobili da mesi. A inizio primavera, i 17 reporter di Ayibopost hanno impacchettato in fretta documenti, archivi e attrezzature. Le gang erano arrivate troppo vicine, presto anche la loro redazione di Turgeau sarebbe stata risucchiata nell’avanzata. Un’alba, dunque, hanno lasciato la sede in cui avevano cominciato dieci anni fa: non hanno ancora potuto fa ritorno. «Nel 2015 eravamo in tre e pensavamo di fare una sorta di forum di discussione, aperto a tutti. Pian piano, però, ci siamo resi conto che dovevamo diventare uno strumento che aiutasse a comprendere la distopia in cui siamo immersi. E lo facesse con un linguaggio immediato, accattivante per i giovani, contemporaneo: da qui l’importanza di video e podcast. Così è nato Ayibopost, semplice anche nel nome: da “Ayiboboo”, il saluto tipico haitiano. Il nostro obiettivo è spiegare, ecco perché non rinunciamo all’approfondimento su temi complessi, dalla corruzione alle nuove frontiere del crimine», racconta Jetry Dumont, uno dei fondatori e attuale direttore del portale diventato il riferimento nazionale per il giornalismo d’inchiesta.
La redazione, al momento, è sfollata, come oltre un milione di persone nella Port-au-Prince blindata. Impossibile lasciare la capitale, via terra: gli accessi sono presidiati dai gruppi armati. Per sfuggire alle bande – protagoniste del conflitto –, le persone girano in tondo da un quartiere all’altro, senza una via d’uscita definitiva. Alla paralisi che blocca il Paese in un crollo permanente, gli haitiani si ribellano con un moto perpetuo della mente e dello spirito per inventare nuove forme di restare vivi, come persone e come popolo. Per non chiudere i battenti, teatri e concerti traslocano online, i gruppi di discussione vanno avanti via telefono, i festival si chiudono nei pochi edifici ancora accessibili. In questo, la pandemia di violenza non è molto diversa da quella sanitaria. Solo l’emergenza è permanente. Adattarsi è una necessità. Alternando lavoro da casa a incontri improvvisati nei pochi bar ancora in funzione, ad esempio, Ayibopost viene aggiornato regolarmente.
«Questo conflitto, senza inizio ufficiale né fine all’orizzonte, ci costringe ad essere creativi. Nell’ultimo decennio non è cambiato solo il mio modo di fare la professione. È la mia vita ad essere stata completamente trasformata. Prima era sempre fuori per parlare con le persone, filmare, fotografare, registrare. Viaggiavo da una città all’altra e anche all’estero. Non è più possibile, soprattutto da quattro anni: dobbiamo, così, limitare al massimo gli spostamenti e utilizzare le interviste da remoto e le fonti sul posto. Un tempo braccio armato dei politici, le gang ora si sono rese autonome e conquistano la città, un pezzo alla volta. Il fronte si sposta di continuo, ingoiando strade, piazze, isolati. Questo è ciò che ora cerchiamo di raccontare, in presa diretta. Non, però, dal punto di vista dei boss e dei gruppi armati. Non ci interessano le loro conferenze stampa, le esibizioni con Kalashnikof su TikTok a beneficio della stampa internazionale che li ha trasformati in un fenomeno “glamour”. Narriamo l’impatto sulle esistenze delle persone, contenendo quello sulle nostre», spiega Jetry. Ayibopost e i suoi cronisti, come molti media indipendenti, sono, insieme, vittime, testimoni, sopravvissuti. «La cosa più dura è stata perdere tanti colleghi, fuggiti all’estero per le minacce o perché non riuscivano più a sopportare tutto questo», afferma Jetry.
«Perché non sono andato via? Penso di potere ancora fare qualcosa. Non si tratta di una scelta eroica o patriottica. Non dico che non lascerò mai Haiti. Resterò fino a quando riuscirò a creare. Resistere per creare e creare per resistere. L’alternativa è morire». Réginald Louissaint Junior è fotografo, regista e artista visuale. Dieci anni fa, con un gruppo di colleghi, ha formato il collettivo “2D”, abbreviazione di “2 Dimansyon”, doppia dimensione, dal creolo.
«Facevamo soprattutto reportage d’autore e fotografia sociale. Al contempo, abbiamo cominciato a lavorare sulla video-arte a livello professionale – dice Réginald –. L’escalation in corso, però, ci ha impedito, negli ultimi anni, di scattare e filmare sul campo. Per continuare a raccontare, siamo ricorsi alla fiction. In realtà, più che è altro è una “riproduzione in laboratorio” della realtà. Ricostruiamo i fatti attraverso una sceneggiatura e degli attori e realizziamo mini-serie diffuse su Internet. Il loro contenuto è quanto più fedele possibile alla realtà, attraverso un lungo lavoro di documentazione. Le scene, però, possono così essere girate all’interno, al sicuro».
«Facevamo soprattutto reportage d’autore e fotografia sociale. Al contempo, abbiamo cominciato a lavorare sulla video-arte a livello professionale – dice Réginald –. L’escalation in corso, però, ci ha impedito, negli ultimi anni, di scattare e filmare sul campo. Per continuare a raccontare, siamo ricorsi alla fiction. In realtà, più che è altro è una “riproduzione in laboratorio” della realtà. Ricostruiamo i fatti attraverso una sceneggiatura e degli attori e realizziamo mini-serie diffuse su Internet. Il loro contenuto è quanto più fedele possibile alla realtà, attraverso un lungo lavoro di documentazione. Le scene, però, possono così essere girate all’interno, al sicuro».
In studio, come Muska group, situato nel quartiere di Christophe. Nell’asettica sala d’attesa, d’un bianco accecante, l’aria condizionata fa rabbrividire i quattro aspiranti protagonisti: un uomo, un ragazzino coi rasta, un giovane dai capelli rasati, una signora di mezza età. A breve cominceranno i provini per una webserie in sette puntate sulla corruzione, diretta da Réginald. Al suo arrivo, tutti alzano gli occhi. «Racconteremo le mazzette quotidiane che ciascuno è costretto a pagare per avere un documento in un ufficio pubblico o non essere fermato dalla polizia», spiega il regista mentre fa entrare il primo candidato, l’adolescente.
Il “casting” sarà rapido: riprese e montaggio non devono protrarsi oltre qualche giorno per contenere i costi di affitto dello studio. «Qui si vive correndo per non restare immobili, anche contro il tempo», scherza Réginald. «Sul breve periodo, sono pessimista su Haiti – conclude Jetry -: la situazione peggiorerà ancora. Nel lungo, però, credo che il Paese riuscirà a trovare il modo di attingere dalla sua storia straordinaria: è nato dalla prima rivolta vittoriosa contro schiavitù e colonialismo. Nel 1804, un pugno di persone in catene è stato capace di sconfiggere l’esercito di Napoleone. Non può essere andato tutto perduto. Magari ci vorrà ancora un po’... Ma Haiti ce la farà».
Il “casting” sarà rapido: riprese e montaggio non devono protrarsi oltre qualche giorno per contenere i costi di affitto dello studio. «Qui si vive correndo per non restare immobili, anche contro il tempo», scherza Réginald. «Sul breve periodo, sono pessimista su Haiti – conclude Jetry -: la situazione peggiorerà ancora. Nel lungo, però, credo che il Paese riuscirà a trovare il modo di attingere dalla sua storia straordinaria: è nato dalla prima rivolta vittoriosa contro schiavitù e colonialismo. Nel 1804, un pugno di persone in catene è stato capace di sconfiggere l’esercito di Napoleone. Non può essere andato tutto perduto. Magari ci vorrà ancora un po’... Ma Haiti ce la farà».
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