«Rabin e la (sua) battaglia della pace che si può ancora vincere«»

Adam Smulevich ha ripercorso le strade del premier ucciso esattamente 30 anni fa. «Ha potuto porgere la mano grazie alla durezza con cui ha saputo difendere il Paese»
November 4, 2025
Nella fotografia, presa dall'alto da un drone, si vedono centinaia di migliaia di israeliani radunati di sera in Piazza Rabin a Tel Aviv per ricordare i 30 anni dall'assassinio del premier Yitzhak Rabin
Le manifestazioni per il trentesimo anniversario dell'assassinio del premier israeliano Yitzhak Rabin nella piazza di Tel Aviv che porta il suo nome /Reuters
Adam Smulevich ha 40 anni, è di famiglia ebraica, è fiorentino, è giornalista, è saggista e siccome negli ultimi mesi di guerra in tanti gli hanno chiesto di prendere le distanze dal sionismo e da Israele – ingiunzione morale di cui sono regolarmente oggetto gli ebrei della diaspora – ha pensato di accorciarle, viaggiando a lungo nello Stato ebraico. Lo ha fatto scegliendo le strade di Yitzhak Rabin, che esattamente trent’anni fa (il 4 novembre del 1995) veniva ucciso da Yigal Amir, un 25enne fanatico che con quel gesto provò a fermare il percorso di pace costruito dal premier israeliano e che portò agli accordi di Oslo del 1993. Ne è uscito un libro “E sceglierai la vita”, appena pubblicato per Minerva, insieme intimo e rigoroso sotto il profilo storico, capace di raccontare con delicatezza un Paese in cui rabbia, odio e speranza convivono e combattono.
Perché Rabin?
Avevo dieci anni il giorno del suo assassinio. Ricordo nitidamente quel trauma. Ho voluto ritrovare Rabin, e in lui ho trovato la storia di Israele: ha incarnato la voglia di esistere di questo Paese che amo, la battaglia per la sua indipendenza, il respingimento di fortissime minacce esistenziali. E poi ho inseguito la sua visione lucida del contesto, con la necessità di trovare un modo per convivere con i palestinesi. Nel mio libro sono andato in caccia di speranze, spero non naif, cercando di raccontare alcune esperienze “dal basso” che portano israeliani e palestinesi a cooperare in vari ambiti.
Rabin era prima di tutto un soldato, ampiamente dotato di quella chutzpà (sfrontatezza) militare che “ha fatto" tutti i più grandi leader israeliani. Ma era anche un uomo di pace.
Negli ultimi due anni, in Italia, accanto a un pacifismo consapevole e sincero, abbiamo spesso visto sbandierato un altro “pacifismo”, molto astratto e ideologico, che non si è mai veramente impegnato a capire la complessità del Medio Oriente. Ecco: questo pacifismo astratto in Israele non può esistere. Uomini come Rabin o Shimon Peres hanno potuto offrire la pace perché si erano impegnati con durezza per difendere il diritto di Israele ad esistere. Già dal 1947, quando una Risoluzione Onu sancì l'avvio della piattaforma “Due popoli, due Stati”: come noto, gli israeliani accettarono, gli arabi no. La costruzione voluta da Rabin non è finita con lui: ci sono state altre opportunità, altre proposte. Ma sia Ehud Barak nel 2000 che Ehud Olmert nel 2008 non hanno avuto una controparte all'altezza. Rabin ha sempre fatto capire con chiarezza quanto disprezzasse Arafat - che aveva scelto il terrorismo come unica via per perseguire l’autodeterminazione del suo popolo -, lo stesso, gli ha stretto la mano perché aveva chiaro l’obiettivo. Pur consapevole dei rischi. La pace si fa tra nemici, ma bisogna essere in due a volerla. C'è ora un fragile vento di speranza in Medio Oriente. Mi auguro che porti a qualcosa di buono per tutti dopo tanto dolore. Ammiro chi, israeliani e palestinesi insieme, sta affrontando il trauma e la cura tendendosi la mano. Nel libro racconto alcune di queste storie.
Lei sottolinea che Rabin rappresenta una delle espressioni più alte del sionismo. Una parola oggi impronunciabile in alcuni contesti.
In questi ultimi due anni sono state immesse nel discorso pubblico parole malate da parte di soggetti fortemente ideologici che tutto hanno a cuore fuorché la pace, la speranza, la possibilità di una convivenza non astratta. Parole che hanno tolto Hamas dal campo visivo, che hanno descritto i terroristi come resistenti e gli ostaggi come un inciso. Giorgio Napolitano, in un celebre discorso, mise in guardia sull'antisemitismo anche quando travestito da antisionismo. L'omologazione, la richiesta di abiura, è qualcosa che ciascun ebreo minimamente legato a Israele ha sentito sulla propria pelle nella quotidianità.
Lei è stato a casa di Yigal Amir a Herzliya e, per il libro, ha intervistato Dvir Kariv, l’agente dello Shin Bet che per primo lo interrogò. Chi era Yigal Amir?
Nel suo fanatismo religioso, istigato da cattivi maestri e legittimato da ambienti tossici, ha agito in quel modo perché riteneva di fare qualcosa di giusto per Israele. Cito il suo virgolettato durante il processo: “Quando un ebreo consegna la sua terra e il suo popolo al nemico, uno è obbligato a ucciderlo”. Nei mesi precedenti l’assassinio aveva spulciato i testi della tradizione ebraica cercando supporto alle sue interpretazioni perverse e legittimazione al suo operato folle.
Oggi quello stesso fanatismo è rappresentato nel governo israeliano. Nell'ottobre del 1995 Itamar Ben-Gvir, oggi ministro della Sicurezza, staccò l’emblema della Cadillac su cui viaggiava Rabin. Disse: “Siamo arrivati alla sua macchina, arriveremo anche a lui”. Pochi giorni dopo il premier veniva ucciso.
Le ideologie radicali sfruttano da sempre la libertà di parola concessa dalle democrazie. In questo mio viaggio sono stato a casa di Tsvia Peres Walden, la figlia di Shimon Peres. “Dovevamo continuare a considerarli fuori legge”, mi ha detto. Nel 2026 gli israeliani torneranno al voto. Secondo quasi tutti i sondaggi, il partito messianico di Bezalel Smotrich non dovrebbe superare la soglia di sbarramento del 3,25%, quello di Ben-Gvir dovrebbe attestarsi intorno ai sette seggi.
Il suo libro si conclude alla Muqata (il compound a Ramallah, in Cisgiordania, che fu la roccaforte di Arafat e che ora ne ospita il mausoleo). Perché?
Volevo affacciarmi “dall'altra parte”, nel centro dell'identità palestinese. Appena quindici chilometri separano Gerusalemme da Ramallah ma la percezione degli eventi è diametralmente opposta. Ci sono stato pochi giorni dopo la liberazione di alcuni terroristi di Hamas, salutati come veri e propri eroi. Questo fa evidentemente paura. Apprezzo molto quel che dice Samer Sinijlawi, un attivista palestinese per la pace tra i più pragmatici. Ai palestinesi, spiega, manca tutto fuorché una nuova icona, un nuovo simbolo, perché troppo a lungo la causa è stata idealizzata “attraverso la lente del vittimismo e della resistenza simbolica”. Serve al contrario un costruttore, insiste Sinijlawi. Come fu Rabin.
Adam Smulevich
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