Perché la “diplomazia del gelato” può aiutare la Cop30 di Belém
di Lucia Capuzzi, inviata a Belém
Alla "Sorveteria Cairu", che si trova dentro il palazzo dove si svolgono i negoziati per il clima, i delegati confrontano posizioni e possibili bozze di intesa. Intanto nei testi ricompare la transizione dalle fonti fossili

L’Amazzonia sta facendo la sua parte: dare un assaggio ai 57mila delegati riuniti alla Conferenza Onu sul clima di Belém dell’impatto del riscaldamento globale sulla vita delle persone. Strategia, giurano i due registi del summit: il presidente Luiz Inácio Lula da Silva e il diplomatico André Corrêa do Lago. Disorganizzazione, risponde il rappresentante delle Nazioni Unite, Simone Steill, che ha inviato una lettera di fuoco al governo brasiliano. In effetti, il Gigante del Sud ha un po’ esagerato. Il Palacio da Cidade, sede dei negoziati, è una sorta di “simulatore” del mondo sconvolto dall’emergenza. Dal gelo dell’entrata si passa al meteo tropicale della prima metà del corridoio principale dove è localizzata buona parte delle sale negoziali. Dentro fa così caldo che un delegato brasiliano è rimasto attaccato al rivestimento della sedia, suscitando una generale risata isterica. Giunti in fondo, il termometro cala precipitosamente per raggiungere temperature invernali. Poi risale. Forse perché si trova nell’esigua fascia temperata al centro dell’edificio – una sorta di Mediterraneo pre-industrializzazione – o perché l’afa del primo tratto fa venire voglia di gelato, la “Sorveteria Cairu” si è trasformata nell’epicentro della Cop30. La fila per aggiudicarsi cono o coppetta è ormai una componente fissa del paesaggio-summit.
Per accorciare i tempi, le persone in attesa si passano l’un l’altra il menù con i gusti rigorosamente locali: vari tipi di frutta amazzonica, caffè, cioccolato. Non si impiega, comunque, meno di una mezz’ora. Troppo per la maratona di negoziati che, alla vigilia della settimana decisiva, è inarrestabile. Ai delegati, dunque, non resta che portarsi avanti durante la coda. Le conversazioni procedono fitte mentre le mani scorrono frammenti di testi nei tablet. Di tanto in tanto, lo squillo del telefono interrompe la discussione: i più spengono, spostarsi per parlare in privato significherebbe perdere il posto. La “diplomazia del gelato”, l’hanno chiamata: un modo per addolcire i disagi di una location inedita. E far sì che la Cop al contempo più simbolica – la trentesima dal vertice di Rio e la decima dagli Accordi di Parigi – e più complessa per la situazione internazionale dia dei segnali concreti di unità globale. Secondo fonti vicine alle trattative, nonostante lo scetticismo imperante, le chance sono buone.
Già da qualche giorno, nonostante le smentite ufficiali, ha preso corpo l’ipotesi di una decisione politica forte – la cosiddetta “cover decision”, prassi abbandonata a Baku – a fine vertice. Merito della “tattica Pelé” della presidenza brasiliana. Il riferimento calcistico è scontato nel Paese dove dal “futebal” dipende l’umore nazionale. Il navigato Corrêa do Lago, fin da subito, ha giocato in attacco per disorientare le parti. Le ha impegnate in sessioni estenuanti sui tanti dossier aperti – “terapie di gruppo”, le definiscono nei corridoi –, avendo già in tasca il testo cruciale. In cui ricompare la transizione dalle fonti fossili, ribadita ieri dalla società civile in una marcia moltitudinaria nel centro di Belém. Brasile, Regno Unito, Germania, Francia, Danimarca, Colombia, Isole Marshall e Kenya sostengono una roadmap con scadenze precise per l’uscita. Altri sessanta Paesi sarebbero favorevoli. La sfida è raggiungere una coalizione di cento: la ministra brasiliana e ambientalista, Marina Silva, ci lavora giorno e notte. E la settimana prossima dovrebbe tornare Lula: non vuole farsi scippare l’iniziativa dalla sgomitante Bogotà, che ha appena vietato l’estrazione in Amazzonia. Il nervosismo del “gruppo arabo” – i petrol-Stati del Golfo, guidati dall’Arabia Saudita – è segno che i risultati iniziano a delinearsi. Altro punto cruciale è l’adattamento e la costruzione – su cui le parti sono impegnate da anni – di un indice comune per valutare l’impatto del surriscaldamento, che costa 400 miliardi di dollari l’anno ai Paesi in via di sviluppo. Il suo completamento e l’aumento dei fondi – il Sud del mondo chiede di triplicare gli attuali 40 miliardi entro il 2035 – potrebbe essere l’altro traguardo. Siamo, però, ancora, letteralmente, a metà della corsa. In base alla “tattica Pelé”, la presidenza brasiliana ha prolungato gli orari dei negoziati fino alla notte. «Peccato – borbotta uno al bancone della “Sorveteria Cairu” -, era l’unico momento in cui la coda diminuiva».
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