Perché il progetto di una grande Israele è irrealizzabile. E costoso
Finora la spesa di Tel Aviv per la guerra è di 88 miliardi di dollari. Se aggiungiamo il logorio dei riservisti, che ha un peso anche sul Pil, ecco spiegato perché i conti di Netanyahu non tornano

Appare sempre più costoso e lunare il sogno della Grande Israele che parte dell’estrema destra ebraica: sta isolando il Paese sulla scena internazionale, compromettendone la legittimità politica; sta polarizzando il mondo arabo e insidiando la tenuta degli accordi di Abramo; sta protraendo una guerra poli-fronte, a tratti indecifrabile per status finale, costata finora 88 miliardi di dollari, logorante lo strumento militare, osteggiata nelle ultime fasi dai vertici dell’intelligence militare, dello stato maggiore della difesa e dal capo del Mossad, contrari a subordinare l’obiettivo militare a una battaglia ideologico-politica e di poltrone.
Con una precisazione doverosa: l’ultimo biennio ha ribadito l’abilità deterrente dell’hardware avveniristico di Israele, la mega-digitalizzazione del campo di battaglia, il decentramento dell’appoggio di fuoco e di distruzione, la tempestività di informazioni che innervano i comandi interarma e le unità minori, gli attacchi frontali e troppo spesso letali per i civili, il ruolo dei commando e la dirompenza della guerra cyber-elettronica, ma ha anche evidenziato lo iato crescente fra armi di precisione a lungo raggio, guerra a oltranza ed erosione del supporto diplomatico internazionale.
Le vittorie tattiche conseguite si stanno traducendo in un rovescio strategico in termini di consenso esogeno ed endogeno, come fu per gli americani in Vietnam. Pur mostrando una vitalità dinamica, è in affanno pure la macroeconomia israeliana (nonostante le rassicurazioni, l’altra sera, di Netanyahu in televisione), passata da un avanzo di bilancio dello 0,3% nel 2022 a un deficit superiore al 4%, con stime prudenziali che limitano i danni a un 4,9% a fine anno, se la guerra finirà. Non ancora preoccupante, lievita pure il debito pubblico, cresciuto in un triennio di 7 punti percentuali. Il raddoppio del bilancio della difesa e i costi della guerra sono stati in parte finanziati con l’aumento dell’imposta indiretta sul valore aggiunto di beni e servizi, a scapito del potere d’acquisto dei ceti inferiori.
Combattere ha un prezzo e prova i soldati: stimano istituti di ricerca israeliani che il 12% dei riservisti impiegati in operazioni a Gaza soffre di sindrome da stress post-traumatico, un problema morale e sanitario, gravoso per le finanze pubbliche, che potrebbero dover dirottare in terapie riabilitative 56 miliardi di dollari nel prossimo quinquennio. Secondo il quotidiano Times of Israel, se si combattesse una nuova battaglia urbana a Gaza City, la fattura potrebbe crescere di altri 29,2 miliardi di dollari, forse più per arginare probabili embarghi antiebraici, in uno scenario che vede Israele forte di una bilancia commerciale in attivo, almeno con l’Unione Europea, primo partner, valevole da solo il 32% dell’interscambio. In ripresa, l’economia israeliana dovrebbe crescere l’anno corrente del 3,3%, meno che nel 2022 (6,2%).
Operazioni militari a ritmi elevati, vantaggio dell’iniziativa, manovra su più teatri, strapotere dell’intelligence, colpi a Gaza, in Cisgiordania, in Yemen, in Iran, in Libano, in Siria e in Qatar insegnano che sconfiggere insorti, terroristi e avversari è importante ma non decisivo per vincere una guerra asimmetrica, soprattutto se si conduce una campagna militare priva di una leadership politica discernente la complessità proteiforme dello scenario internazionale. In ginocchio, Hamas di fine 2025 non è più una minaccia militare, ma un misto di guerriglia e terrorismo, finalizzati a obiettivi politico-psicologici più che militari. Ha perso consensi il movimento, ma l’ultimo sondaggio del Centro palestinese per la ricerca politica ne stima il supporto al 43%, confermando un cortocircuito fra misure draconiane israeliane e oblio dei principi politico-economico-sociali, insieme vincenti nelle strategie contro-terroristiche. Quel 43% indica le potenzialità residue di Hamas, in attesa che nasca uno Stato palestinese indipendente ai suoi antipodi. Un progetto osteggiato dal governo israeliano, a dispetto del prossimo riconoscimento de jure di buona parte della comunità occidentale, ma non degli Stati Uniti, alleati di ferro di Israele, da essi dipendente per due terzi dell’import bellico e per parte della supremazia mediorientale dell’aeronautica militare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






