mercoledì 1 febbraio 2023
La testimonianza del salesiano Maksym Ryabukha, nuovo ausiliare greco-cattolico dell'esarcato di Donetsk
Il vescovo Maksym Ryabukha in una Messa vicino a Bakhmut

Il vescovo Maksym Ryabukha in una Messa vicino a Bakhmut - Gambassi

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«Una camera mi basta e mi avanza. Anche perché spero che sia una sistemazione provvisoria…». Scherza il vescovo Maksym Ryabukha mentre si aggira fra le stanze della parrocchia della Madonna del perpetuo soccorso a Zaporizhzhia. I casermoni in stile sovietico circondano la chiesa in legno dove si raduna la comunità greco-cattolica che vive fra i quartieri popolari sulla riva destra del Dnepr, il fiume che taglia a metà la città.

È l’episcopio di monsignor Ryabukha, anche se tutti continuano a chiamarlo “don Maksym”. O meglio, un non-episcopio perché non è Zaporizhzhia la sede dell’esarcato di cui lui è il nuovo ausiliare. È Donetsk. Città occupata dai russi, come gran parte dei territori della diocesi di Ryabukha dove non può mettere piede e dove non resta neppure un prete cattolico: tutti cacciati, gli ultimi fra novembre e dicembre. Sa bene, don Maksym, di essere un vescovo greco-cattolico costretto all’esilio da quando il 21 dicembre è stato consacrato a Kiev.

«Ma almeno ho scelto di stare nel luogo più vicino a quella parte della mia gente che la guerra mi impedisce di incontrare fisicamente», spiega. Ed eccolo a Zaporizhzhia, sotto le bombe lanciate al di là della linea di demarcazione che circoscrive le aree controllate dal Cremlino, a meno di cinquanta chilometri dalla città. «Siamo così prossimi alle zone da cui partono gli ordigni, che gli allarmi cominciano a suonare quando il missile è già caduto – racconta –. Ogni volta che la gente li sente, tira un sospiro di sollievo. E con amara ironia ripete: “Non eravamo noi il bersaglio”».

Il pessimismo della ragione fa ritenere che ci vorrà tempo prima che il vescovo Maksim possa entrare nella sua cattedrale a Donetsk e soprattutto abbracciare il popolo «in ostaggio dei soldati di occupazione», afferma. L’ottimismo della volontà di cui Ryabukha, da buon salesiano, è permeato lo ha spinto a fare oltre 5mila chilometri in auto nel suo primo mese da vescovo, pur di toccare più terre libere possibili nell’esarcato di Donetsk. «Occorre stare a fianco delle persone, soprattutto quelle che più spesso subiscono gli attacchi – confida il presule 42enne originario di Leopoli –. La presenza della Chiesa ricorda a quanti sono nella prova che il Signore non li abbandona».

E poi è voluto arrivare fin dove a lui è permesso andare: il che significa al fronte, fra i soldati. Anche nei dintorni di Bakhmut, ultimo epicentro degli scontri, dove ha celebrato la Messa sottoterra, fra le trincee e le retrovie. «Ho visto i militari commuoversi quando cantavamo insieme. Mi hanno detto che pensavano alle famiglie lontane ma anche ai commilitoni che in troppi continuano a morire e di cui qualcuno dovrà rendere conto di fronte a Dio». E con il pensiero va ai due sacerdoti greco-cattolici arrestati con false accuse nella città occupata di Berdyansk: «Siamo accanto a loro con la preghiera. Sono un luminoso esempio di dedizione alla comunità».

Nei giorni del Natale ucraino, fra il 6 e il 10 gennaio, un gruppo di giovani e seminaristi di Leopoli lo ha accompagnato nelle zone calde delle regioni di Donetsk, Kharkiv e Zaporizhzhia. Del resto lui è il vescovo dei giovani. E lo racconta la sua storia di prete: ha aperto il primo oratorio salesiano a Kiev; è stato referente della pastorale universitaria; fin dall’inizio del conflitto in Donbass, nel 2014, ha organizzato campi per i ragazzi delle zone di combattimento.

«La nostra gente – afferma – ha una forza interiore incredibile. Ho ascoltato confidenze straordinarie di dolore e di resistenza. Condividere il vissuto di guerra vuol dire trovare insieme le ragioni della speranza. E ribadire che nessuno può rubarci la vita. La guerra non mette in pausa l’esistenza». A segnare l’inizio del suo ministero episcopale è stata la telefonata di Francesco. «Una chiamata a sorpresa – rivela –. Nella conversazione il Papa mi ha chiesto quale fosse la situazione nel Paese. Poi mi ha assicurato di portare nel cuore le sofferenze del nostro popolo e mi ha chiesto di trasmettere a tutti coloro che incontro la sua vicinanza».

Con il suo stile vulcano il vescovo “ragazzino” è diventato un riferimento a Zaporizhzhia. «Siamo soprattutto la città dell’accoglienza che abbraccia chi fugge dai territori occupati. E sotto i missili troviamo luminosi esempi di ecumenismo dal basso quando vediamo persone appartenenti a diverse confessioni che operano fianco a fianco per cucinare i pasti dei soldati o per dare una mano ai profughi». Intanto qualcuno chiama monsignor Ryabukha. «È l’ora della lezione di italiano. Si tratta di un corso per gli sfollati. Poi mi fa ricordare gli otto anni passati fra Piemonte e Lombardia per la formazione salesiana». E corre nell’aula della parrocchia trasformata in scuola di speranza.

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