Haiti la resistente: l'isola ribelle che ci interpella

di Lucia Capuzzi, Angela Napoletano e Chiara Vitali
Per oltre nove mesi abbiamo raccontato un Paese che ha fatto del tener duro, «kémbe fém», il proprio motto. Chiudiamo con la storia di Fabienne, prima ballerina del teatro nazionale, che ha continuato a danzare anche dopo avere perso la gamba nel sisma
December 28, 2025
Haiti la resistente: l'isola ribelle che ci interpella
Bimbi e adolescenti sono, al contempo, vittime e carnefici nella guerra haitiana: dal 2024, il reclutamento di minori da parte delle gang è cresciuto del 700%/ ANSA
Prima, lentamente, si staccano i talloni, poi il resto del piede fino a quando tutto il peso del corpo è adagiato sulle punte. Al centro della stanza, con gli occhi chiusi e il fisico esile proteso verso l’alto, Christina, 20 anni appena compiuti, resta immobile una manciata di secondi che sembrano eterni. Poi si accovaccia a terra e respira. «Me l’ha insegnato mia madre. Quando penso a lei, la vedo sempre danzare – racconta –. Non ha mai lasciato». Fabienne Jean, stella del teatro nazionale di Haiti, ha continuato a ballare anche dopo avere perso la gamba destra nel terribile terremoto del 2010. Grazie a una protesi donata da un produttore del New Jersey ha volteggiato nei palcoscenici degli Usa, divenendo il simbolo di una rinascita possibile. Non si è fermata nemmeno quando l’ondata di commozione internazionale nei suoi confronti è rifluita e i benefattori statunitensi hanno interrotto gli aiuti, facendo sfumare l’effimero “sogno americano” dell’artista. L’ultimo ballo, Fabienne l’ha fatto in quella stessa stanza una domenica del 2020 sulle note emesse dalla radiolina portatile. Pochi giorni dopo è morta per una crisi epilettica: aveva 41 anni. Un “disturbo collaterale” causatole dal sisma. «”Kembè fèm”, tieni duro, era il suo ritornello – dice Christina che all’epoca era 14enne –. Ho cercato di farlo mio».
“Kembè fèm”: scolpita in versi, tradotta in musica, urlata per le strade o appena sussurrata, la frase riassume, fin dall’epoca della colonia, l’ostinazione degli haitiani ad andare avanti nonostante le catastrofi, naturali e umane, che li hanno colpiti. Mai, però, come per la generazione cresciuta fra le macerie del terremoto permanente che, negli ultimi quindici anni, ha sbriciolato istituzioni e poteri pubblici, lasciando il Paese nelle mani delle gang criminali e portando la violenza a un livello di ferocia senza precedenti, è letteralmente questione di vita e di morte. «Voglio vivere. E studiare che per me è la stessa cosa. È l’unico modo per essere un soggetto attivo, non solo “vittima”. Nessuno verrà a salvarci, dobbiamo essere noi a prendere in mano la situazione. Mia madre l’ha imparato sulla propria pelle. Per questo mi ha fatto promettere che avrei terminato la scuola». Una sfida non da poco in Paese in cui di fatto non esiste un sistema di istruzione pubblica. Poiché il magro salario di impiegato pubblico del nonno Yves non era sufficiente, da quando aveva 12 anni, Christina sistema taglia capelli, fa tatuaggi e improvvisa trattamenti estetici a domicilio per pagare la retta scolastica. «Ho appena versato la rata per i prossimi sei mesi al Collège Mixte América di Port-au-Prince: se tutto va bene potrei diplomarmi nel 2026. Se no continuerò a insistere. “Kembè fèm”».
“Kembè fèm”. Una nazione che ha dovuto fare del “tener duro” la sua essenza non è una causa persa. La narrativa globale su cui tale affermazione si regge si ferma alla superficie. Andare oltre è stato l’obiettivo di “Figli di Haiti”, la campagna promossa da Avvenire e Fondazione Avvenire che ora si conclude. È cominciata lo scorso marzo e per oltre nove mesi ha cercato di raccontare l’isola nella sua complessità. Lo ha fatto sulle pagine del quotidiano e sul sito, attraverso reportage, interviste, storie, approfondimenti, un podcast, un docufilm e una mostra fotografica. Il quadro emerso è sfaccettato:Haiti non è solo un inferno lontano e disperato. Ma un Paese di cui tutti siamo figli poiché, con la sua ribellione vittoriosa contro la schiavitù ha trasmesso al mondo il valore della libertà universale.
A costo di un prezzo altissimo, nel senso letterale del termine. Sotto la minaccia di una nuova aggressione militare, la Francia ha costretto l’ex colonia ribelle a pagare l’indipendenza ottenuta sul campo di battaglia con 150 milioni di franchi, (l’equivalente attuale di 560 milioni di dollari). Un ricatto in piena regola, si direbbe, reso possibile dalla complicità della comunità internazionale terrorizzata dall’idea di veder nascere, e crescere, la prima Repubblica nera della storia. Haiti ci ha messo 132 anni a ripagare il debito, gravato, come se non bastasse, dagli interessi sul prestito “concessogli” dalle banche di Parigi per onorare l’impegno. In pochi sanno che tra gli istituiti di credito che hanno beneficato di quegli interessi c’è il Crédit industriel et commercial che ha utilizzato una parte del guadagno per finanziare la costruzione della Tour Eiffel. La prima di una lunga serie di “ingerenze”- dall’occupazione di inizio Novecento alla forza anti-gang in fase di dispiegamento - ammantata dalle più svariate giustificazioni. La ricostruzione - mancata - post-sisma è l’esempio paradigmatico. Appena lo 0,6 per cento degli oltre 6 miliardi di dollari sborsati dalla comunità internazionale tra 2010 e 2012 è andato a organizzazioni locali. Il resto è tornato indietro ai Paesi donatori medianti appalti alle proprie aziende. Distratto da nuove emergenze, nel frattempo, il mondo ha voltato lo sguardo. Haiti è rimasta sola. Come Fabienne.
Nell’invisibilità la generazione segnata da quel fallimento, però, prova a “tenere duro”. Lo sforzo è senza precedenti. Bambini e adolescenti sono i protagonisti della guerra haitiana. Le gang sono eserciti di ragazzini reclutati con la forza o l’inganno e impiegati come carne da cannone. Ma i ragazzi della “generazione terremoto permanente” sono anche quanti, facendo ricorso a un surplus di immaginazione, cercano di costruire alternative. A partire dallo studio che, in un simile contesto, è una scelta di resistenza.
È la scelta dei lettori di Avvenire che hanno partecipato alla raccolta per garantire la scuola ai 14 bimbi la Maison des Anges di Faucher. Là, sulle montagne di Grand-Goâve, è approdato l’orfanotrofio-profugo” gestito da Gladys e Leslie dopo che le bande armate avevano trasformato in campo di battaglia il quartiere di Port-au-Prince dove si trovava la struttura originaria. La coppia ha dato fondo ai risparmi per riadattare un vecchio casolare e continuare a sfamare i piccoli. «Ma sarebbe stato tutto inutile se non avessimo potuto farli studiare. Ce l’abbiamo fatta grazie all’aiuto degli amici italiani», dice Gladys mentre i piccoli con la cartella e la divisa si incamminano verso la scuola.
È la scelta dei ragazzi di “Kay Chal”, centro fondato da suor Luisa Dell’Orto, piccola sorella del Vangelo, uccisa tre anni e mezzo fa da quattro proiettili tuttora senza firma. A tenerlo aperto sono ora Falou e gli altri educatori formati dalla religiosa che offrono un’opzione alla strada a oltre trecento bimbi.
È la scelta degli studenti universitari che continuano a frequentare le lezioni nei pochi atenei ancora attivi. Fuori dalle aule, periodicamente, si sentono degli spari. Eppure i loro occhi si distraggono solo per un attimo dai libri.
È la scelta degli scrittori e delle scrittrici haitiane che mettono in parole ciò che è difficile immaginare, degli artisti che rendono visibile una ricchezza dirompente e solo in parte soffocata da violenza e miseria. «Haiti ha così tanta bellezza, merita più della nostra pietà», dicono, con le loro opere.
È la scelta dei movimenti popolari che si riuniscono per forgiare, nei quartieri, nelle stradine sterrate, perfino nelle discariche a cielo aperto, frammenti di un presente e di un domani differente.
È la scelta di Christina. Kèmbe fèm. 

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