martedì 28 dicembre 2021
Tutta la sua esistenza è stata orientata alla piena inclusione alla popolazione nera segregata in Sudafrica, unendo i principi cristiani e la cultura Ubuntu. Sabato primo gennaio i funerali
Fiori accanto a una fotografia di Desmond Tutu davanti alla cattedrale di San Giorgio a Cape Town

Fiori accanto a una fotografia di Desmond Tutu davanti alla cattedrale di San Giorgio a Cape Town - Ansa

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Desmond Mpilo Tutu, arcivescovo anglicano ed esponente di spicco della società civile sudafricana, scomparso domenica a 90 anni, entrerà di diritto nella Storia dell’intero continente africano. Nato a Klerksdorp, nella regione del Transvaal, il 7 ottobre del 1931, Tutu apparteneva al gruppo etnico Xhosa, lo stesso del Padre della Patria Nelson Mandela. Da giovane desiderava diventare medico, ma non essendo la sua famiglia in grado di far fronte alle costose rette universitarie, ripiegò sull’insegnamento nelle scuole superiori seguendo le orme paterne. Successivamente intraprese gli studi teologici divenendo, nel 1960, ministro ordinato della Chiesa anglicana. Nominato cappellano dell’Università di Fort Hare, nel Sud del Paese, culla del dissenso contro l’apartheid, Tutu prese sempre più coscienza della necessità di riscattare i diritti della popolazione afro. Successivamente tornò a studiare al King’s College di Londra (dal 1962 al 1966) dove conseguì prima una laurea e poi un master in teologia.

Una volta rientrato in patria, manifestò apertamente il suo dissenso, stigmatizzando le responsabilità del regime di Pretoria che palesemente negava i diritti umani della popolazione afro. Nel 1972, tornò una seconda volta in Gran Bretagna, dove venne scelto come vice-direttore del Fondo per l’educazione teologica del Consiglio Mondiale delle Chiese, a Bromley nel Kent. Di nuovo in Sudafrica nel 1975, fu nominato decano della Cattedrale di St. Mary a Johannesburg. Si trattò di una scelta che fece scalpore e suscitò non poche polemiche nei circoli governativi, in quanto era la prima volta che tale carica non veniva ricoperta da un bianco. La sua maturazione come credente impegnato nella lotta di liberazione raggiunse una fase di svolta nel 1976, durante le proteste della township di Soweto, a seguito della direttiva governativa che imponeva l’uso della lingua afrikaans nelle scuole afro.

Da quel momento Tutu appoggiò il boicottaggio economico nei confronti del regime segregazionista. Dal 1976 al 1978, ricoprì la carica di vescovo del Lesotho, divenendo anche segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese e, con il consenso di quasi tutte le Chiese, fu in grado di portare avanti la sua opposizione politica contro l’apartheid. Attraverso scritti, lezioni e conferenze, sia in patria sia all’estero, Tutu sostenne comunque in modo risoluto la riconciliazione tra tutte le parti coinvolte nella segregazione. Continuò a manifestare il suo carisma profetico, in difesa della negritudine, come vescovo di Johannesburg dal 1985 al 1986 e poi come arcivescovo di Città del Capo dal 1986 al 1996. Sposato con Leah Nomalizo Tutu dal 1955, la coppia ebbe quattro figli: Trevor Thamsanqa, Theresa Thandeka, Naomi Nontombi e Mpho Andrea.

Per comprendere lo spessore del pensiero di Tutu, è importante considerare il patrimonio di saperi ancestrali della sua terra natia, il Sudafrica, che egli seppe ben coniugare con le istanze della Parola di Dio. La sua filosofia di vita si è infatti sempre ispirata al cosiddetto "Ubuntu". Si tratta di un concetto filosofico della tradizione bantu, dalla forte valenza sociale, presente, ad esempio, nelle lingue dei popoli Zulu e Xhosa. Se provassimo a tradurre questa espressione in italiano, potremmo dire: "Io sono perché tu sei"; "una persona diventa umana attraverso altre persone"; "una persona è una persona a causa di altre persone". Una visione, dunque, della società senza divisioni e nella quale ogni persona è chiamata a svolgere un ruolo importante. Da qui nacque l’attenzione che Tutu diede a ogni genere di alterità, esprimendo così un’istintiva e naturale tensione verso la pace.

Per comprendere ancora meglio quanto sia forte questa dimensione relazionale all’interno delle culture sudafricane, è illuminante un aneddoto raccontato da un antropologo che ha svolto un’intensa ricerca su questo tema. Un giorno, egli decise di mettere un cesto pieno di frutta vicino a un albero, dicendo poi a un gruppo di ragazzi che chi tra loro fosse arrivato prima avrebbe vinto tutti i frutti. Quando diede il segnale, tutti i bambini si presero per mano e corsero insieme, poi si misero in cerchio per godere comunitariamente il premio promesso. Successivamente, lo studioso chiese il motivo per cui avevano evitato la competizione, e tutti risposero insieme: "Ubuntu!". Sta di fatto che questo fu il fondamento della nuova nazione "Arcobaleno", termine che Tutu stesso coniò per scongiurare la vendetta da parte della maggioranza afro nei confronti della minoranza bianca dopo la caduta del regime segregazionista di Pretoria. Il suo impegno non-violento per affermare l’agognato cambiamento, come abbiamo visto, affondava le radici nel suo passato, tant’è vero che già nel 1984, ben prima della fine dell’apartheid, venne premiato con il Nobel per la Pace per il suo «ruolo di figura unificante nella campagna per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica».

Fu proprio lui l’ideatore nel 1995 della Commissione Verità e Riconciliazione, con l’intento di accordare la grazia a chi, fra i responsabili delle atrocità commesse durante l’apartheid, avesse pienamente confessato i propri crimini: una forma inedita di riparazione morale anche nei confronti dei familiari delle vittime. Questo indirizzo, fortemente sostenuto dal Padre della Patria Nelson Mandela, fu rivoluzionario, non foss’altro perché nei circoli diplomatici accreditati in Sudafrica erano in molti a credere che prima o poi si sarebbe scatenata, per sete di vendetta, una guerra civile nel Paese dell’Africa Australe. Da questo punto di vista, Tutu ebbe il merito di colmare un vuoto morale che si era aperto nella stessa società civile che per troppi anni, a livello continentale, era rimasta silente di fronte alle malefatte perpetrate dai fautori dell’apartheid. Ma al contempo, la sua leadership, ispirata al multiculturalismo e all’integrazione, consentì di creare le premesse per il nuovo corso. Per dirla con le parole del compianto africanista Giampaolo Calchi Novati, il merito di Tutu e di tutti coloro che sostennero la lotta non-violenta sta nel fatto di aver «accettato e praticato il "plurale" voluto dalla storia», alla sola condizione di ripudiare il razzismo e la discriminazione, «evitando di "territorializzare" i diritti dei popoli o le aspettative delle minoranze».

Chi scrive ebbe modo di incontrarlo alcuni anni or sono a Città del Capo e rimase fortemente colpito dalla sua determinazione a non scendere a compromessi e dalla forza del suo pensiero. «Quando si manifestano situazioni di ingiustizia – disse – indipendentemente dal governo di turno, bianco o nero che sia, la neutralità è inaccettabile. Essere silenti in simili circostanze significa stare dalla parte dell’oppressore». I funerali del compianto arcivescovo sono stati fissati per l’1 gennaio a Città del Capo. Nel frattempo l’intero Sudafrica è in lutto nazionale. Nell’annunciare la morte dell’arcivescovo Tutu, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha espresso, «a nome di tutti i sudafricani, profonda tristezza e cordoglio per la scomparsa di una figura essenziale della storia nazionale», definendolo un «patriota senza pari, leader di principi ma anche pragmatico, che ha dato un vero significato alla dottrina biblica che la fede senza l’azione è morta».

Papa Francesco ha espresso il proprio cordoglio attraverso un telegramma a firma del cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato. «Memore del suo servizio al Vangelo – si legge nel messaggio – attraverso la promozione dell’uguaglianza razziale e la riconciliazione del suo nativo Sudafrica, Sua Santità affida la sua anima all’amorevole misericordia di Dio Onnipotente». «Il suo impegno per la giustizia era sempre unito alla predicazione del Vangelo – ha dichiarato il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna –. Si impegnava per il perdono, ma sempre anche per la giustizia, per combattere tutti i razzismi e ogni discriminazione, da qualunque parte arrivasse. Conserviamo quindi il suo impegno, perché sono ancora tanti i pregiudizi, gli "apartheid", le discriminazioni non scritte e c’è ancor tanto bisogno di perdono e di giustizia».

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