venerdì 9 aprile 2021
Dopo il rapporto di Hrw la replica azera: «Erano sabotatori», e accusa Erevan di favorire l’uso di mine anti-uomo. Antonia Arslan: «Narrativa tipica di un regime negazionista»
Armeni tra le macerie dopo un esplosione a Stepana-kert, in Nagorno-Karabakh

Armeni tra le macerie dopo un esplosione a Stepana-kert, in Nagorno-Karabakh - Ansa

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La tregua dello scorso 9 novembre tra Armenia e Azerbaigian, con Mosca chiamata a fare da arbitro, non ha certo sopito aspre contese e velenose accuse fra Baku, la vincitrice, ed Erevan, la capitale armena da allora in una crisi politica di difficile soluzione. E la partita geopolitica in Nagorno-Karabakh segnerà una nuova, forse determinante mossa, con l’annunciata visita nella regione contesa di Recep Erdogan a metà maggio, appena concluso il Ramadan.
Il reís turco andrà nella città di Shusha – da sempre contesa e divisa a metà tra quartieri cristiani armeni e quartieri musulmani azeri – riconquistata dalle forze dell’Azerbaigian lo scorso novembre e che, posta su una collina strategica, consente il controllo di tutta l’enclave armena. Un passo importante, nella strategia neo-ottomana di Ankara, per realizzare un “corridoio turco" che, attraverso l’Azerbaigian, potrebbe sospingere l’influenza politica della Turchia fino alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
Una battaglia geopolitica che pare più ampia e che, ritornando al Nagorno-Karabakh a circa sei mesi dalla fine degli scontri si è concentrata sul rilascio dei prigionieri di guerra. Una preoccupazione cui papa Francesco, durante il messaggio "Urbi et Orbi" di Pasqua, ha dedicato un significativo passaggio chiedendo per «quanti sono prigionieri nei conflitti, specialmente nell’Ucraina orientale e nel Nagorno-Karabakh, di ritornare sani e salvi alle proprie famiglie».
A fine marzo un rapporto di Human rights watch (Hrw) – dopo aver esaminato video diffusi sui social e intervistato ex detenuti – accusava l’Azerbaigian di aver sottoposto ad «abusi» e «tortura» soldati e civili armeni, prigionieri di guerra tuttora detenuti in carcere. Di pochi giorni dopo è l’appello di alcuni intellettuali italiani – tra cui Antonia Arslan, Dacia Maraini e Carlo Verdone – che citando il dossier dell’organizzazione umanitaria con sede a New York, chiedevano al governo di Baku un rilascio immediato dei detenuti in base alla Convenzione di Ginevra e al cessate il fuoco del 10 novembre. I prigionieri, è stata la replica dell’ambasciatore azero in Italia Ahmadzada, sono stati tutti liberati, mentre gli almeno 67 detenuti di cui parla Hrw, fanno parte di un «gruppo di sabotaggio» entrato in Azerbaigian per «commettere atti di terrorismo» e che, colpevoli «dell’uccisione di civili e militari azerbaigiani», per questo sono detenuti e, precisa il diplomatico, trattati nel rispetto del diritto internazionale. L’ambasciatore Ahmadzada, sottolinea come l’Armenia «continua a violare il diritto di ritorno dei profughi azerbaigiani alle proprie terre» e in un recente intervento Hikmat Hajiyev, assistente del presidente dell’Azerbaigian, ha chiesto all’Armenia di consegnare le mappe dei «territori liberati» dove sono presenti mine anti-uomo che causano morti fra i civili.
«È solo uno degli argomenti narrativi del regime dell’Azerbaigian che, usando come scudo internazionale la Turchia, ha sempre attuato un chiaro negazionismo dei suoi crimini», la replica della scrittrice Antonia Arslan. In Nagorno Karabakh, «con enorme determinazione», è rientrata solo la metà dei 150mila armeni fuggiti durante gli scontri. «Una popolazione a rischio di un nuovo genocidio culturale e per cui non c’è nessuna forma di tutela internazionale.
L’unica tutela è quella di Mosca che non può permettere un predominio incontrastato di Erdogan nel Caucaso», conclude l’autrice del famoso romanzo La masserie delle allodole, dedicato al genocidio armeno del 1915.

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