venerdì 12 novembre 2021
Il presidente della piccola nazione del Pacifico Palau, Surangel Whipps: il mondo deve unirsi, le risorse «scompaiono sotto i nostri occhi, il futuro ci viene strappato pezzo a pezzo»
Il ministro degli Esteri di Tuvalu, Simon Kofe, parla alla Cop26 in videoconferenza con l'acqua alle ginocchia

Il ministro degli Esteri di Tuvalu, Simon Kofe, parla alla Cop26 in videoconferenza con l'acqua alle ginocchia - Reuters

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Più che un rapporto è un grido d’allarme. Lo studio dell’Organizzazione meteorologica mondiale, presentato alla Cop26, dimostra come il riscaldamento globale sia una minaccia esistenziale per il Sudest asiatico, i 13 piccoli Stati insulari del Pacifico e il migliaio di atolli e isolette disseminate tra l’Asia e l’Australia. Dal 1993, la temperatura delle acque è raddoppiata a una velocità quasi tripla rispetto alla media mondiale. Il calore soffoca pesci e coralli: in meno di vent’anni, la quantità pescata è diminuita del 75 per cento a Vanatu, del 23% a Tonga e del 15 in Nuova Caledonia. I tradizionali tifoni si sono incrementati per frequenza e capacità di distruzione. Il loro passaggio ha divorato quasi l’8 per cento del Pil della Micronesia, arcipelago di cui buona parte degli Stati insulari fanno parte. Per alcune di queste, come Vanatu, le perdite sfiorano il 20 per cento della già ridotta economia. Tuvalu, addirittura, si sta portando avanti. Il governo (il premier ha parlato alla Cop26 in videoconferenza con l’acqua alle ginocchia) sta verificando come mantenere la propria statualità in caso l’isola venga sommersa dal Pacifico. Una minaccia concreta. Una ricerca Onu ha calcolato che oltre la metà delle infrastrutture pacifiche è a rischio annegamento. A Kiritimati l’innalzamento del mare ha coinvolto quasi la metà delle case. Un trasferimento su sette nell’isola è conseguenza dell’innalzamento del livello del mare. Sempre più abitanti, inoltre, cercano rifugio all’estero. Dal 2018, oltre 30mila cittadini delle Isole Marshall sono andati negli Usa. E ai profughi climatici, difficilmente, viene riconosciuto lo status di rifugiati.


L'impegno dei piccoli

C’è un’antica leggenda nell’isola di Palau. L’insaziabile Uab crebbe fino a diventare un gigante, divorando piante e animali. Sempre affamato, alla fine, cercò di sbranare gli stessi vicini di casa. Da soli questi non potevano difendersi. Tutto il villaggio, però, si coalizzò, accese un gran fuoco e riuscì a far cadere dentro il gigante. E si salvò». Surangel Whipps jr racconta spesso questa storia. Fa parte della memoria ancestrale del suo popolo, abituato a confrontarsi con la forza indomabile del Pacifico. E a resistere.
L’ha detta anche, la settimana scorsa, all’apertura della Cop26, ai leader internazionali perché l’attuale gigante è troppo potente e batterlo richiede uno sforzo congiunto. «Le risorse scompaiono sotto i nostri occhi, il futuro ci viene strappato pezzo a pezzo. La vostra inerzia ci condanna a una morte lenta. Piuttosto, bombardateci!», ha tuonato. Non si tratta di una frase ad effetto. Nell’ultimo mezzo secolo, lo Stato-isola più piccolo di New York, ha visto crescere il livello del mare di 2,4 millimetri l’anno. Una quota apparentemente irrisoria ma sufficiente a mutare l’andamento delle correnti e ridurre in modo drastico pesci e coralli, principali risorse per i 23mila abitanti. Per questo, il leader, nell’imminenza del gran finale del summit Onu, ripete il suo appello, anche a nome delle altre 38 sorelle pacifiche, riunite nell’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis): «Facciamo come gli abitanti del villaggio: uniamoci di fronte alla minaccia del nuovo Uab, il cambiamento climatico, e salviamoci tutti. Smettiamo di guardare senza agire e facciamo ciò che deve essere fatto. La scienza ce lo ha detto con chiarezza. Basta parlare, agiamo!».
Presidente Whipps, è ottimista riguardo all’esito del summit?
Noi isolani siamo ottimisti per natura, ma il nostro dramma quotidiano ha eroso l’ottimismo ai minimi termini. Abbiamo sentito parole incoraggianti in questi giorni. Se, però, non si traducono in azioni sono vuote. L’Accordo di Parigi è costruito sulla fiducia. L’incapacità del Nord del pianeta di mantenere l’impegno di destinare 100 miliardi di dollari l’anno ai Paesi poveri l’ha messa a dura prova. I popoli delle piccole isole non possono più permettersi di essere ingenui. Le nazioni ricche devono stanziare quattromila miliardi di dollari per essere credibili.
La finanza resta il punto dolente, come ha ricordato anche questa mattina (ieri, ndr) il presidente della Cop26 Sharma. Che strategia state impiegando per convincere il resto del mondo a impegnarsi maggiormente anche economicamente?
Di nuovo, la forza di noi piccoli Paesi insulari risiede nell’unità. I numeri giocano contro di noi. In eventi come questi, le nostre delegazioni sono da sempre sottorappresentate. Il Covid ha portato lo svantaggio all’estremo: a Glasgow c’è la minor presenza fisica di esponenti pacifici di sempre: sono potuti venire solo altri due leader oltre a me, quelli delle Figi e di Tuvalu. Ma questo ha fatto sì che fossimo ancora più coesi. Fin dall’inizio, parliamo con una sola voce. Dai negoziati tecnici ai dossier più spinosi, ci supportiamo gli uni gli altri, portando un messaggio forte, chiaro, significativo.
Pensate di poter riuscire a incidere nelle conclusioni del summit?
L’impatto del cambiamento climatico sulle nostre vite è devastante. Le case e le infrastrutture pubbliche – dalle scuole agli ospedali – rischiano, ogni giorno, da un evento estremo non previsto. Per quanti sforzi facciamo in termini di progresso e sviluppo, il nostro presente e il nostro futuro sono nelle mani dei Paesi inquinatori che continuano a emettere CO2, facendo crescere il livello del mare, la forza dei venti, la temperatura delle acque. Le piccole isole come Palau non hanno le risorse adeguate per far fronte alle continue catastrofi. Eppure, ogni volta, siamo lasciati soli a riparare i danni e a ricostruire da zero. La disperazione ci fa chiedere prestiti che sappiamo di non poter sostenere. Per questo le dico: sì dobbiamo riuscire a incidere. Dobbiamo convincere i partner del G20 – responsabili di circa l’80 per cento delle emissioni – a prendere misure concrete e verificabili per ridurre i gas serra e mantenere la temperatura globale entro la soglia degli 1,5 gradi. Se non lo faranno, interi popoli e culture scompariranno. Non abbiamo alternativa. La Cop26 per noi non è un vertice internazionale: è questione di vita o di morte.

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