giovedì 23 novembre 2023
Dopo l’invasione dell’Ucraina, in trentamila hanno ottenuto un permesso di residenza. Sono utili all’economia ma Belgrado inizia a «scoraggiare» le espressioni di aperto dissenso
Kiev: la prima neve a Maidan

Kiev: la prima neve a Maidan - Reuters

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Nella sua nuova vita in un Paese straniero, a Guzel capita spesso di sentirsi rivolgere entusiastici apprezzamenti per Vladimir Putin, quando l’interlocutore di turno capisce che lei è russa. Proprio a causa del suo presidente però lei, il marito e il figlio di due anni hanno lasciato la Federazione. «Non importa, non c’è sempre il tempo di chiarire a tutti perché ci troviamo a Belgrado», ci spiega. «Quando ai nuovi amici e colleghi serbi riusciamo a raccontare della reale situazione in Russia, alcuni cambiano opinione sul Cremlino.
E poi il governo serbo è stato molto disponibile con noi, ci piace vivere qui». Originaria di Mosca, Guzel si è trasferita in Serbia un anno fa. «Non siamo attivisti, solo cittadini contrari al conflitto con Kiev. Quando la guerra è iniziata abbiamo deciso di andarcene via». Dal febbraio 2022 sono 30.000 i russi che, come lei, hanno ottenuto un permesso di residenza in territorio serbo. La stima è, però, di 200mila connazionali che informalmente vi si sono stabiliti.
«La Serbia è uno dei pochi Paesi dove possiamo entrare senza problemi di visto, che vale trenta giorni e si rinnova oltrepassando di nuovo il confine. Si diventa invece residenti se si ottiene un impiego o si ha una proprietà» spiega la donna, che è ingegnere informatico. Storica alleata di Mosca e con legami linguistici e religiosi solidi, da quasi due anni Belgrado assiste al singolare arrivo di esuli russi anti-Putin, vivendo cioè la contraddizione di dare rifugio agli oppositori del proprio potente alleato. È candidata per l’adesione all'Unione Europea dal 2012 e all'Assemblea generale Onu ha votato a favore della risoluzione che condanna l'invasione dell'Ucraina. Ha però rifiutato di introdurre sanzioni contro la Federazione russa.
«In città si svolgono eventi e concerti di musicisti russi contro il conflitto, hanno aperto caffè e ristoranti russi, librerie, asili», aggiunge Guzel. «Nella capitale la vita sociale della diaspora è vibrante», ci spiega Peter Nikitin, fondatore della Russian Democratic Society (Rds), associazione di espatriati nata dopo l’avvio dell’«operazione speciale». Ha raccolto finora decine di migliaia di euro per Ong ucraine e, soprattutto, ha promosso cortei contro la guerra per le vie di Belgrado.
«Se per i russi sono state annunciate norme più favorevoli sull’immigrazione (e infatti chi era fuggito in Turchia e Georgia ora viene qui), le autorità hanno cominciato però anche a prendere precauzioni affinché chi protesta non lo faccia con troppo rumore», rileva Nikitin. Così gli esponenti più attivi della Rds hanno subito le prime pressioni. «A luglio hanno cercato di impedirmi di tornare in Serbia dall’estero. Ho passato due giorni in aeroporto, i media hanno fatto un gran trambusto, e alla fine mi è stato concesso di entrare in Serbia». Sono invece rimasti senza permesso di residenza il co-fondatore dell’Rds Vladimir Volokhonsky e Yevgeny Irzhansky, organizzatore di concerti no-war. Poi è toccato all'attivista Ilia Zernov, respinto alla frontiera.
«La Serbia accoglie i russi, utili all'economia perché portano soldi» conclude Nikitin. «Ma scoraggia il dissenso in un contesto in cui la maggior parte della popolazione vede con favore la Russia, Putin e la sua guerra. La nostra organizzazione vuole cambiare questa visione. Per noi è prioritario spiegare che il presidente russo e la Federazione sono due cose ben distinte. Insomma, che Putin non è la Russia».
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