venerdì 4 luglio 2025
Il gruppo armato chiede «modifiche minori» alla nuova bozza in attesa del faccia a faccia tra Netannyahu e il presidente Usa che potrebbe annunciare la tregua
Una mamma e una bambina durante un bombardamento nel campo di al-Bureji nel centro della Striscia

Una mamma e una bambina durante un bombardamento nel campo di al-Bureji nel centro della Striscia - Ansa

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Intorno al lungo tavolo, rigorosamente giallo, ci sono cinquanta sedie vuote. Tante quanti sono i sequestrati del 7 ottobre ancora prigionieri a Gaza: i loro volti sono adagiati, uno dopo l’altro, sugli schienali. Al posto della tovaglia, lo striscione con scritto: «Un Grande Bellissimo Accordo sugli ostaggi», riadattamento del “Big Beautiful Bill” di Donald Trump. A lui si è rivolta direttamente Einav Zangauker. «Presidente continui a fare pressione su Benjamin Netanyahu», ha urlato la donna alla dimostrazione organizzata dal Forum delle famiglie di fronte alla sezione di Tel Aviv dell’ambasciata Usa in occasione della ricorrenza del 4 luglio. Il figlio, Matan, 25 anni, catturato a Nir Oz, è uno dei 23 rapiti che potrebbero essere ancora in vita dopo 638 giorni di cattività. «L’artefice della tregua con l’Iran può raggiungere l’intesa delle intese a Gaza», le ha fatto eco Keith Siegel, liberato il primo febbraio scorso, nell’ambito del precedente stop ai combattimenti. È stato il giorno più lungo ieri per Israele come per la Striscia. Il cessate il fuoco sembra finalmente all’orizzonte. Per raggiungerlo è sufficiente un passo che, però, potrebbe dilatarsi all’infinito. La risposta di Hamas alla versione aggiornata dal Qatar del “piano Witkoff”– dal nome dell’inviato Usa per il Medio Oriente – è arrivata in tarda serata al termine della riunione-fiume di Istanbul dell’ufficio politico del gruppo armato- Ed è «positiva». Anche se – aggiungono fonti qatarine – avrebbe proposto «emendamenti minori». È quanto si prevedeva. I miliziani prendono tempo in attesa della garanzia della fine del conflitto al termine dei 60 giorni di tregua previsti dal documento durante il quale ci sarà il rilascio graduale dei rapiti, i primi otto all’inizio.

Il testo su questo punto parla di un impegno americano – insieme ai negoziatori Qatar e Egitto – affinché «le trattative in buona fede continuino fino al raggiungimento di un accordo definitivo». Una formulazione ambigua data la strenua opposizione manifestata dal governo israeliano al riguardo, che non segna un cambiamento sostanziale rispetto al documento precedente, naufragato tre mesi fa. Al di là di quanto scritto nero su bianco, a fare la differenza stavolta potrebbe essere il “fattore Trump”, a cui la bozza affida l’annuncio dell’ok finale, suggellato da una missione di Steve Witkoff in Medio Oriente. Solo il leader repubblicano – è opinione condivisa – ha i mezzi per convincere Netanyahu, specie dopo l’aiuto diretto nello scontro con l’Iran. Dirimente in tal senso si profila il faccia a faccia alla Casa Bianca l’amico-alleato. A quel punto, i miliziani potrebbero dare il sì definitivo. Almeno i vertici in esilio, sensibili alle crescenti pressioni di Doha che, in questo modo, punta a diventare un interlocutore privilegiato degli States nella regione, insediando la posizione di Arabia Saudita e, soprattutto, Egitto, con cui la rivalità è storica. I comandanti nell’enclave, in particolare il falco emergente Izz al-Din al-Haddad, potrebbero fare opposizione.

«Anche se l’accordo arrivasse ora, sarebbe sempre troppo tardi: ormai mio fratello è morto», ha Mayar al-Farr, 12 anni in un video diffuso su Instagram in cui mostra le scarpe di Iyad Mahmud, 19 anni, ucciso due notti da un proiettile vicino a Bani Suheila, dove si era recato per cercare di ottenere un sacco di farina. «Ci costringono a camminare dritti verso la morte con i nostri piedi», ha detto tra i singhiozzi Mayar. Nello stesso modo è morto a Khan Yunis, vicino a uno dei 4 centri di distribuzione della controversa Gaza humanitarian foundation, Abdullah Hammad, operatore di Medici senza frontiere. La dodicesima vittima dell’Ong dall’inizio del conflitto. I funerali delle ultime vittime si sono svolti nel mezzo di ulteriori bombardamenti in cui, secondo il ministero della Salute controllato da Hamas, hanno fatto venti ulteriori vittime palestinesi. Nei combattimenti sono stati colpiti a morte, nel nord dell’enclave, anche due soldati israeliani. Da giorni è in atto un’escalation dell’esercito di Tel Aviv che sostiene di avere colpito oltre cento obiettivi e di controllare il 65 per cento del territorio della Striscia. Un strumento di pressione nei confronti di Hamas ma anche un messaggio per il dopo.

In parallelo alla battaglia sull’intesa è già iniziata quella sul futuro di Gaza. E quest’ultima, nell’ottica di Trump, si inquadra in una prospettiva regionale di “normalizzazione” dei rapporti tra Israele e i vicini arabi in modo da isolare Teheran, indebolita dai recenti rovesci. Il tycoon punta al fatto di negoziare sul nucleare da una posizione di forza con il regime, indebolito dai recenti rovesci. L’Iran, da parte sua, cerca di mostrare i muscoli: proprio ieri gli ispettori dell’Agenzia atomica internazionale hanno lasciato Damasco dopo l’interruzione alla collaborazione. La sua influenza nell’area si è oggettivamente ridotta, specie dopo la caduta di Assad in Siria. Proprio a Damasco guarda con crescente interesse Washington: il ministro degli Esteri, Asaad al-Shaibani al segretario di Stato, Marco Rubio, si è detto pronto a tornare all’accordo di disimpegno con Tel Aviv del 1974 sul Golan. Un nuovo segno di distensione

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