sabato 31 agosto 2019
Il cambiamento climatico crea un circolo vizioso. L’aumento delle temperature e la siccità rendono più difficile controllare le fiamme. Che, a loro volta, producono emissioni
(Foto Nasa via Ap)

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In primo piano, ci sono le sagome dei cinque Continenti. Insieme ai colori tradizionali – verde per le aree boschive, marron per le montagne, azzurro per i mari –, sulla mappa spiccano inquietanti pennellate rosse. Si tratta, a ben vedere, di puntini, tanto vicini da formare strisce di colore estese lungo ampie porzioni di America Latina, Africa, Artico, Sud-est asiatico. È la fotografia dei fuochi attivi nel pianeta, scattata dall’autorevole Fire information for resource management system, il centro dati della Nasa.

L’immagine, diffusa la settimana scorsa, ha prodotto forte impatto nell’opinione pubblica internazionale, ancora scossa dall’emergenza roghi in Amazzonia. Poiché ha mostrato con inconfutabile evidenza quanto gli scienziati sostengono da tempo: gli oltre 40mila fuochi attivi solo nella porzione brasiliana di foresta sono, purtroppo, solo la punta dell’iceberg. Gli incendi di per se non sono una novità: secondo la Fao, ogni anno brucia tra il 3 e il 4 per cento della superficie terrestre. La loro intensità e potenziale distruttivo, molto più elevato costituiscono, però, un inedito.

La ragione è il cambiamento climatico: se quest’ultimo non ci fosse – afferma John Abatzoglou, dell’Università dell’Idaho – i fuochi della California, di fatto ciclici, avrebbero una potenza minore di 500 volte. Il surriscaldamento è, al contempo, causa e conseguenza dell’attuale falò globale. L’aumento delle temperature e il relativo prolungamento dei periodi di siccità crea le condizioni perché il fuoco si propaghi con più facilità.

Anche in caso di atto doloso. È quanto accade nell’Amazzonia brasiliana. Le fiamme sono state appiccate intenzionalmente da gruppi criminali al soldo dei latifondisti: gli effetti del riscaldamento planetario hanno reso più difficile controllarli, catapultando il dramma sulla ribalta planetaria. In Indonesia si riscontra un fenomeno simile. Tra gennaio e luglio sono andati in fumo 135mila ettari di selva, quasi il doppio rispetto all’intero 2018. Le autorità puntano il dito sui produttori di olio di palma, ansiosi di ampliare le coltivazioni.

Il fattore umano è alla base pure degli incendi in atto in Angola, Zambia e Repubblica democratica del Congo, dove si è raggiunto il record di 10mila roghi contemporanei, mentre in Brasile ci si è fermati a 2.127. In questo caso, però, si tratta di “fuochi controllati”, accesi e spenti dai piccoli agricoltori per preparare il terreno, senza danni eccessivi. Almeno nel 90 per cento dei casi. Il restante 10 per cento sfugge di mano e devasta l’ambiente.

Non a caso la foresta del Congo si è ridotta dal 67 al 54 per cento, nel giro di 15 anni. In prevalenza spontanei sono, invece, i fuochi che, quest’estate, hanno distrutto 2,5 milioni di ettari di boschi siberiani, un milione di ettari di tundra dell’Alaska e grandi estensioni – ancora non quantificate – di Artico e Groenlandia. Essi sono il prodotto diretto del riscaldamento globale: l’innalzamento della temperatura nell’Artico – che procede a velocità doppia rispetto al resto del pianeta – determina un aumento dei fulmini, secca le pianete e le rende più facilmente infiammabili, moltiplicando il rischio e gli incidenti anche in una regione dove prima erano rari.

I roghi fuori controllo sono, a loro volta, motore del cambiamento climatico. La combustione libera nell’atmosfera diossido di carbonio, uno di principali responsabili dell’effetto serra. Soprattutto il suolo artico, la cosiddetta tundra, particolarmente ricca di carbonio. Nei primi 18 giorni di agosto, gli incendi nell’aria hanno liberato nell’aria 42 milioni di tonnellate di diossido di carbonio, per un totale di 180 tonnellate da giugno, tre volte e mezzo le emissioni svedesi di un anno. Oltretutto, gli alberi assorbono un terzo del totale dei gas serra prodotti, impedendogli di impattare sull’atmosfera. Difficilmente il fuoco può devastare un’intera selva. Ma la avvicina al “tipping point” o punto di non ritorno, a partire dal quale una foresta si trasforma in savana. In modo irreversibile.

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