venerdì 13 aprile 2018
La notizia, poi le smentite e le conferme. Adesso sul futuro delle Libia c'è ancora più incertezza, con il rischio di un ulteriore aggravamento delle tensioni interne e internazionali.
Il generale Haftar in una foto dello scorso anno (Ansa)

Il generale Haftar in una foto dello scorso anno (Ansa)

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L’«uomo forte della Cirenaica», il «generalissimo» acclamato dai sostenitori, il «signore della guerra» odiato dai nemici, sarebbe morto a Parigi dove era ricoverato dal 5 aprile. Così come la sua vita è stata un mistero - allevato dal Kgb sovietico e accudito dalla Cia americana - anche la morte del leader libico Khalifa Haftar è un giallo internazionale le cui ripercussioni non sono prevedibili.
Dopo le iniziali smentite, diverse fonti locali hanno confermato il decesso del militare (in passato dato per morto altre volte) che era stato portato in un ospedale militare di Parigi mentre i suoi fedelissimi assicuravano che «il feldmaresciallo è in eccellente salute» e dal quartier generale di Bengasi «sta assolvendo i propri compiti giornalieri di comando generale in tutte le sale operative». Il canale Al Arabiya, citando fonti libiche, ha però diffuso la notizia di un colloquio telefonico tra l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamè e il generale Haftar, smentendo la notizia del decesso. Incertezze che finiscono per fare il gioco di chi scommette sull’instabilità.

L’ultimo strappo di Haftar si era consumato poche ore prima che venisse colpito da un malore (infarto secondo alcune fonti, ictus secondo altre). Il generale aveva respinto un’offerta di condivisione del potere avanzata dal premier libico Fayez Al Sarraj, a capo del governo riconosciuto dall’Onu ma in grado di controllare solo alcuni quartieri di Tripoli. L’offerta prevedeva la creazione di un nuovo consiglio presidenziale e di un nuovo governo prima delle elezioni che l’Onu vorrebbe far tenere entro il 2018 e che già stanno provocando faide e omicidi politici. Haftar aveva però rimandato indietro il mediatore di Tripoli affermando di non riconoscere la legittimità di Sarraj, il cui mandato è formalmente scaduto a dicembre.

Altre fonti segnalavano nei giorni scorsi un «balzo qualitativo del tacito coordinamento fra Haftar e gli Stati Uniti» in colloqui svoltisi alla fine di marzo ad Amman, dove il generale peraltro ha incontrato anche responsabili di Emirati arabi uniti e Russia, consolidando anche l’alleanza con l’Egitto.

Secondo Arturo Varvelli, responsabile per il Medio Oriente e il Nord Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), l’uscita di scena di Haftar di certo romperà la fase di stallo: «Bisogna capire se in positivo o negativo: al momento attuale entrambe le condizioni sono possibili - osserva Varvelli - di certo c’è una nuova chance verso il caos, ma anche verso una ricomposizione politica. È ancora prematuro per capirlo».

Le ricadute politico-economiche non sono secondarie. Non solo perché una ripresa della conflittualità in Libia finirà per spingere nuovamente migliaia di migranti verso l’Italia, rompendo la pax remunerata dagli accordi stretti tra Italia e gli esponenti delle tribù libiche, ma perché gli uomini di Haftar oltre a controllare gran parte della Libia possiedono le chiavi dei principali siti petroliferi. Già dal 2016 l’Esercito della Cirenaica aveva preso il controllo dei terminal per le esportazioni nella zona del bacino della Sirte, la cosiddetta "mezzaluna petrolifera".

In una mano le chiavi per l’accesso all’oro nero, nell’altra il comando dell’armata più estesa, il generale era riuscito a tenere a bada le ambizioni dei piccoli signori della guerra. Fino a ieri.

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