Le voci da Gaza assediata: «Aspettiamo solo il nostro turno per morire»
di Redazione
Almeno 800mila persone migreranno a sud. Ahmed, 23 anni: «Zone umanitarie? Non so se ridere o piangere. Tutti qui hanno venduto ciò che avevano per comprare cibo e acqua»

Ieri è stato un buon giorno per Ahmed. Il boato delle bombe ha scandito come sempre il trascorrere della notte a Khan Yunis, sud della Striscia di Gaza, ma al mattino nel campo di Mawasi è arrivata l’acqua. Un’autobotte offerta da un generoso donatore emiratino ha raggiunto la periferia della tendopoli cresciuta sulla spiaggia. Gli uomini riempiono le taniche, un capannello di abiti logori e volti spenti. «Ormai tutti qui hanno venduto ciò che avevano per comprare cibo e acqua. Non so se ridere o piangere quando sento i politici e i comandanti israeliani parlare di zone umanitarie, del sud come un posto sicuro», dice ad Avvenire Ahmad, 23 anni, che prima del 7 ottobre studiava economia per sfuggire dalla diffusa miseria dell’enclave.
Sono questi i luoghi, le disumane allucinazioni verso le quali già si dirigono migliaia di abitanti di Gaza city, accerchiata e bombardata nelle fasi preliminari dell’operazione “Gideon’s chariots 2”, cominciata all’alba di giovedì. Almeno 800.000 persone migreranno progressivamente a sud, un esodo che si ingrosserà all’intensificarsi dei bombardamenti, allo stringersi dell’assedio.
Ha ragione Sara, 37 anni, paramedico volontario della Mezzaluna rossa, nell’insistere perché la sua registrazione venga ascoltata. Intorno alla tenda nel campo di al-Karamah, nord di Gaza city, si rincorrono le esplosioni.
Ha ragione Sara, 37 anni, paramedico volontario della Mezzaluna rossa, nell’insistere perché la sua registrazione venga ascoltata. Intorno alla tenda nel campo di al-Karamah, nord di Gaza city, si rincorrono le esplosioni.
Una voce anziana di donna invoca gentilmente Dio in una litania. La distruzione e la preghiera, la morte e la preghiera, la solitudine e la preghiera. Voce e frastuono si saldano in un messaggio troppo grande e crudele. Una musica insostenibile, luminosa. «Non ci sono beni di prima necessità, né acqua da bere né acqua per lavarsi in questo caldo intenso. Una settimana mi sono venute forti coliche e mi sentivo debole. Mi sentivo come se mi avessero tagliato l'intestino con un coltello. Non avevo medicine. Mio fratello Zakaria è stato ucciso mentre era in viaggio per portarci un sacco di farina dalla zona degli aiuti americani. Vivo a casa con mia madre, una donna anziana, le mie sorelle», racconta Sara.

«Sogno sempre di mangiare frutta e carne. Poi mi sveglio e capisco che si tratta di un sogno. Piango, parlo da sola e mi riaddormento. Lavoro anche nel campo del supporto psicologico, cerco di alleviare il dolore degli altri e finisce che mi porto a casa l’energia negativa della disperazione che incontro. Non trovo nessuno che possa alleviare la mia. Quando un luogo vicino a me viene bombardato corro subito e cerco di aiutare i feriti, ma ogni volta mi imbatto in grandi difficoltà perché non ho l'attrezzatura di primo soccorso. Non credo a quello che dicono, alle possibilità di una tregua. Questa città è il posto dove sono cresciuta, non vorrei mai andare via, ma lo farò quando arriverà l’ordine di evacuazione».
È questa la voce degli innocenti di Gaza city, degli innocenti di tutta la Striscia, travolti, cancellati dalla grande storia spietata: «Siamo in una giungla dove sono tutti i predatori, non c'è posto per noi». «Ti svegli ogni mattina – conclude – e davanti a te non c'è la natura, il mare o la pioggia. Cammino più di dieci chilometri ogni giorno fra morti e macerie. Ho perso più di 40 persone della mia famiglia allargata. Aspetto solo il mio turno per morire. Arrivo quasi a desiderare la morte in ogni momento, perché questa vita non è dignitosa».
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