giovedì 25 marzo 2021
In un mondo distratto dal Covid-19, la crisi ambientale si è mutata in alimentare, per poi farsi sociale, economica, etnico-religiosa ed umanitaria. E nel vuoto di potere si moltiplicano i massacri
La lotta per la terra nel Sahel fa da volano al jihadismo

Ansa

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Il 31 marzo, dopo 43 anni di sfruttamento, il gruppo francese Orano, ex Areva, abbandonerà le attività estrattive in una importante miniera di uranio (fondamentale per la produzione di energia nucleare) nella città di Arlit, nel Nord del Niger. Dopo che il sito di Akouta è stato quasi esaurito – tramite la sussidiaria nigerina Cominak – e con il prezzo dell’uranio in calo sui mercati globali dopo anni di profitti e vacche grasse, i francesi tagliano dunque le operazioni, lasciando oltre 600 giovani dipendenti, più altri 800 contractor e altri centinaia nell’indotto, senza lavoro e speranze in una delle regioni più povere del pianeta. Quanti di questi giovani, tra quelli che non proveranno ad emigrare direttamente in Europa, andranno a ingrossare le fila di un jihadismo che giorno dopo giorno allunga i suoi tentacoli nell’intero Sahel, in tempi in cui la pandemia di coronavirus sottrae attenzioni e risorse per interventi coordinati di sviluppo e cooperazione? Non necessariamente la perdita di un lavoro trasforma un essere umano in un estremista violento, ma l’assenza di futuro può essere devastante per la stabilità personale e, al contempo, sociale e regionale.

L’ultimo attacco ai villaggi, in Niger, è di domenica scorsa: 137 civili – compresi 22 bambini tra i cinque e i diciassette anni – sono stati uccisi e altri feriti o separati dalle loro famiglie nella regione di Tahoua. Stavano andando a raccogliere acqua quando sono avvenuti gli attacchi: uomini armati hanno sparato a tutto ciò che si muoveva. «Preghiamo per le vittime, per le loro famiglie, per l’intera popolazione, affinché la violenza non faccia smarrire la fiducia per la giustizia e la pace», è stato il pensiero rivolto ieri alle vittime da papa Francesco, al termine dell’udienza generale. Gruppi legati al Daesh, ad al-Qaeda, milizie che si muovono su base etnica o per aggiudicarsi il controllo della regione in vista di affari sporchi in un territorio devastato da cambiamenti climatici e lotta per l’accaparramento delle risorse. Niger, ma anche Mali e Burkina Faso, in un mondo ora «distratto» anche dal Covid-19, sono al centro di una catastrofe umanitaria.

Nel solo 2020 sono stati 5mila i morti, 1,4 milioni gli sfollati interni, 3,7 milioni le persone piombate nell’insicurezza alimentare in questo triangolo martoriato. Molte delle dinamiche conflittuali in corso partono da un bene sempre più prezioso e raro: la terra. La crisi ambientale, sottolineava anche un recente rapporto Caritas, si è mutata in alimentare, per poi farsi sociale ed economica, etnico-religiosa, e infine umanitaria, compiendosi così in una grave forma di degrado umano. Vittime di attacchi di matrice terroristica, centinaia di migliaia di famiglie stanno abbandonando le loro case e attività in regioni che gli Stati non controllano da tempo. La galassia jihadista ha gioco facile nel riempire il vuoto di potere di questi territori.

Dal 2 aprile il Niger avrà un nuovo presidente, il 61enne Mohamed Bazoum. Nel Paese che con 7,6 figli per donna detiene il record di fertilità planetaria, Bazoum dovrà mostrare che le promesse sul futuro lanciate in campagna elettorale – le questioni legate alla famiglia, all’educazione dei giovani, la crescita dell’economia e la lotta all’insicurezza imposta dai jihadisti – non sono parole vuote, con il sostegno della comunità internazionale. Lo sviluppo e la difesa delle popolazioni vulnerabili, così come la promozione della coesione sociale e della pace, sono obiettivi imprescindibili e comuni anche ai Paesi vicini, una strettoia necessaria da attraversare per riuscire a cambiare il destino di una regione che ha bisogno di ripensare il suo futuro.

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