venerdì 15 settembre 2023
Minacce alla famiglia, arresti preventivi e una vittima alla vigilia dell’anniversario della morte della 22enne in carcere per aver indossato in maniera sbagliata il velo, il 16 settembre 2022
Le proteste in Iran

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Le proteste di massa, capaci di portare in piazza decine di migliaia di persone, sono finite da mesi, schiacciate dal pugno di ferro del regime. Anche la solidarietà umorale del pubblico dei social ha trovato nuove battaglie da promuovere a colpi di click. Eppure, esattamente un anno dopo, la morte in custodia della 22enne Mahsa Amini, il 16 settembre 2022 – arrestata in quando “mal velata” –, continua a propagare la propria onda d’urto per l’Iran. In modo diverso, certo, rispetto all’esordio. La rivolta ha perso il carattere plateale per diventare ostinata resistenza quotidiana. «Quelle delle ragazze che escono senza hijab, nonostante molte vengano fermate, insultate o malmenate. Quella dei lavoratori che, nei diversi settori, ciclicamente, incrociano le braccia», spiega Neguin Bank, dissidente, da quasi trent’anni in esilio in Italia. Proprio le manifestazioni – ovviamente in patria – sono l’incubo dell’84enne ayatollah Ali Khamanei e del presidente falco, Ebrahim Raisi, che, da settimane, hanno intensificato la repressione per impedirle.

Da metà luglio, le squadre della “Gasht-e-Ershad”, la polizia morale, sono tornate a pattugliare per verificare il “corretto” impiego dell’hijab, insieme alle onnipresenti telecamere per il riconoscimento facciale. Dalla fine del mese scorso, i parenti degli attivisti sono stati pesantemente minacciati e alcune decine sono state arrestate. Il 5 settembre, è finito sotto in cella lo zio di Mahsa, Sali Aeli. L’intera famiglia della giovane ha subito pesanti minacce per annullare la commemorazione religiosa al cimitero di Saqqez prevista per domani. Il loro avvocato, Saleh Nikbakht – che fin dal principio ha contestato la versione ufficiale della morte della giovane, attribuita dalle autorità a un problema cardiaco – è in prigione con l’accusa di «propaganda contro il sistema»: rischia tra uno e due anni di carcere.

La persecuzione si è accanita con particolare forza sulla stampa e sulle università. Le giornaliste Negin Bagheri e Elnaz Mohammadi, del quotidiano digitale Ham Mihan, sono state condannate a tre anni per «cospirazione», mentre la reporter critica Nazila Maroufian è tornata in prigione per la seconda volta in un anno. La connessione di molti siti e media indipendenti va a singhiozzo da giorni, con veri e propri black-out a Zahedan, nella provincia sud-orientale del Sistan-Baluchistan, una delle zone più calde, dove tuttora si registrano cortei dopo la protesta del venerdì. Artisti, cantanti, figure pubbliche sono sotte stretta “osservazione”. Gli atenei – “colpevoli” di avere offerto rifugio e supporto ai dimostranti – hanno subito una vera e propria purga, con decine di docenti licenziati. Perfino il famoso esperto di intelligenza artificiale Ali Sharifi Zarchi ha perso la cattedra alla prestigiosa università Sharif di Teheran. I 22mila dimostranti amnistiati hanno ricevuto un avvertimento chiaro da uno dei vertici del potere giudiziario, Sadegh Rahimi: qualunque iniziativa sarà punita, stavolta, con un castigo doppio. Hamed Bagheri, attivista curdo, è stato ucciso dalle forze di sicurezza a una trentina di chilometri da Teheran per aver incitato le persone a manifestare.

Questo non ha impedito che in vari quartieri della capitale siano tornate le grida di protesta. L’ostinazione con cui il regime sta perseguendo il dissenso, reale o presunto, non fa che confermare, però, quanto potente ancora risuoni per l’Iran il grido «Zan, Zendegi, Azadi» ovvero «Donna, vita, libertà». La sua eco va ben oltre la quantità di capelli che una testa femminile è autorizzata a mostrare. Non a caso, lo slogan-simbolo della rivolta è stato inventato da un giovane uomo, Shervin Hajipour della città di Babolsar, che l’ha trasformato in canzone e diffuso su Twitter. In queste tre parole sono sintetizzati tutti gli abusi che gli iraniani hanno sopportato in 44 anni di Repubblica islamica. Le donne e la loro lotta contro l’hijab sono la punta avanzata di un movimento ampio, in cui si trovano le minoranze etniche e religiose – tradizionalmente discriminate –, i giovani affamati di libertà e le famiglie impoverite dalla cronica crisi economica, innescata dal ripristino delle sanzioni Usa dopo il ritiro unilaterale dall’accordo sul nucleare da parte dell’amministrazione Trump.

In cinque anni, la moneta locale ha perso il 66 per cento del suo valore, l’inflazione galoppa, i prodotti di importazione scarseggiano nei bazar. La recessione strangola i salariati e la classe medio-bassa mentre la morsa si allenta progressivamente man mano che ci si avvicina ai vertici del regime. Proprio nella capacità di coniugare le istanze sociali con la richiesta di diritti, risiede la forza della rivolta, che procede silenziosa, in attesa di una nuova fiammata. L’Iran è una polveriera. Nel frattempo, “Donna, vita e libertà” resta il grido muto di ogni cittadina che cammina per strada senza hijab. E sono tante.

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