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Decine di persone scendono da alcuni pulmini, altri da qualche automobile, tutti arrivano per vedere una partita di calcio. Ci sono canti, urla e ad ogni gol il pubblico invade il campo con sarti mortali e balli. Sembrano le finali dei Mondiali, invece a giocare su un campetto di terra battuta sono due gruppi di bambini a Port-au-Prince, la capitale di Haiti.
Descrive la scena Valentina Piazza, direttrice del Csi (Centro sportivo italiano) per il mondo, che ha uno stretto legame con l’isola caraibica. Ascoltare i suoi racconti aiuta a capire quale valore possa avere lo sport in un contesto così complesso come quello haitiano, tra la violenza delle gang e la miseria che riguarda la maggior parte della popolazione.
Un dato di contesto: «Ad Haiti non esiste una filiera di società sportive organizzate e spesso, purtroppo, le realtà del mondo occidentale hanno uno sguardo predatorio: si arriva per cercare chi ha le potenzialità di diventare un campione», raccontano dal Csi. Il loro approccio, invece, doveva essere diverso. Sin dal 2011, anno del primo approdo ad Haiti, «i nostri partner principali sono stati i padri scalabriniani – racconta Piazza –. Avevano capito subito che lo sport si lega alla formazione, alla salute, a dinamiche sociali. Il primo campetto polivalente è nato perché le persone chiedevano uno spazio dove ritrovarsi in modo sicuro». Per altri progetti il Csi ha potuto usufruire anche del sostegno del governo haitiano dell’epoca.
Negli anni poi le azioni si sono moltiplicate fino alla creazione di un vero e proprio Csi haitiano: 6 squadre di calcio, una di basket, una di pallavolo. «Per noi la priorità è sempre stata formare gli allenatori in modo che le attività potessero continuare in futuro senza di noi – specifica Piazza – . Riuscivamo a dar loro anche un contributo economico». In estate, con il Csi arrivavano ad Haiti pure decine di giovani volontari italiani, impegnati ad animare campi estivi come quello di Camp Corail, una collina fuori dalla capitale inizialmente disabitata e affollata di baracche dopo il terremoto del 2010. «Avevamo di fronte persone che faticavano a mangiare una volta al giorno. A fine attività fornivamo sempre un pasto ai 500 bambini partecipanti».

Un'attività del Csi ad Haiti - Csi per il mondo
Ci sono stati anche alcuni momenti che il Csi definisce come piccoli miracoli: «Avevamo organizzato un torneo a Cité Soleil, una delle zone più pericolose della capitale: si dice sempre che chi ci entra, non ne esce più. Ma arrivati nel quartiere abbiamo trovato un campetto, un impianto audio, era tutto pronto: i capi banda che controllavano la zona si erano accordati tra loro». Lo stesso episodio viene ricordato dal presidente del Csi di Milano, Massimo Achini, anche lui impegnato nei progetti su Haiti: «I capi delle gang avevano voluto parlare con noi, poi si erano accordati. Lo sport in questo senso è un lasciapassare: apre porte improbabili».
Le attività sono state possibili fino al 2019. Poi, l’escalation di violenza tra le gang ha reso la situazione troppo pericolosa: gli operatori del Csi sono stati aggrediti e non è stato più possibile entrare nel Paese. Nel frattempo Corail è diventato inaccessibile a causa dei gruppi armati che l’hanno conquistato. Sono rimasti attivi, però, i contatti con gli allenatori: «Spesso ci scrivono chiedendo aiuto e noi non sappiamo come poter rispondere», dice Piazza. «Per noi Haiti è stata una prima volta – aggiunge Massimo Achini –: da quell’esperienza è nato Csi per il mondo, che oggi ha progetti in più di 10 Paesi. Lo sport può davvero essere un generatore di comunità».
Il desiderio di trovare il modo di rientrare nell’isola è forte, rimarca il presidente: «Io lancio un appello. Il nostro sogno è tornare ad Haiti con alcuni campioni delle squadre italiane di serie A e dire con loro: organizziamo una partita a Port-au-Prince, tutti insieme».
Un gesto per i Figli di Haiti: aiuta ad andare a scuola i bimbi della Maison des Anges, l’orfanotrofio sfollato
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