sabato 28 giugno 2025
I campi restano incolti per la violenza. Il Paese è fra i primi cinque per rischio di inedia, secondo l’indice di Pam e Fao. Oltre 2.1 milioni di abitanti, un quinto della popolazione, è allo stremo
La distribuzioneda parte del Programma Alimentare Mondiale degli aiuti a Croix-des-Bouquets, nella capitale Port-au-Prince, prima dello stop di Trump a Usaid

La distribuzioneda parte del Programma Alimentare Mondiale degli aiuti a Croix-des-Bouquets, nella capitale Port-au-Prince, prima dello stop di Trump a Usaid - Wfp/Tanya Birkbeck

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«F, g, h, i». La fila di panni stesi copre l’inizio de “l’alphabet français”, come è scritto con il gesso bianco sulla lavagna malandata. La guerra ha interrotto da tempo le lezioni di grammatica. Di scuola, alla École Nationale de la République de Colombie, situata nel quartiere Boudon di Port-au-Prince, è rimasto solo il nome. Nelle aule ora dormono tremila persone, ammassate in gruppi di 80-100. Un terzo sono bambini. Appena una goccia del fiume di 1,3 milioni di persone in fuga da una parte all’altra della capitale. Quando le gang attaccano un quartiere scappano in uno ancora “sicuro” ma sempre all’interno del perimetro metropolitano: lasciarlo è impossibile, le vie d’uscita sono bloccate dai gruppi armati. Un anno fa, gli sfollati interni erano meno di un quarto. L’incremento della violenza ha fatto crescere il numero a dismisura. Ormai la gente si accampa ovunque trovi posto: piazze, uffici, edifici pubblici, soprattutto scuole. Come l’École Nationale de la République de Colombie, trasformata in uno dei 228 campi profughi informali di Port-au-Prince. Nel corridoio, appena oltre l’entrata su Rue Passerine una folla si fa largo tra file interminabili di panni stesi in cerca di aiuto o anche solo uno spazio per distendere le braccia, le gambe, il corpo. I più piccoli provano addirittura a giocare.

La prima classe è diventata un ambulatorio rudimentale e, al contempo, un magazzino: in un angolo sono accatastati i pochi averi che ciascuno ha salvato dal fuoco delle bande. Vestiti, coperte, pentole, zaini, taniche per l’acqua, accumulati in ordine sparso. Là il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), in collaborazione con l’Unicef e l’Ong Medici del mondo assistono le vittime della malattia più comune e letale scatenata dalle deflagrazioni belliche: la fame. Haiti ne sta letteralmente morendo. La metà della popolazione è malnutrita. E questa, purtroppo, non è più una novità. Mai prima d’ora, però, tanti erano arrivati allo stremo: 2,1 milioni di persone, quasi un quinto degli abitanti ha raggiunto quello che gli esperti definiscono “livello di emergenza”.

Il Paese è fra i primi cinque – insieme a Sudan, Palestina, Sud Sudan e Mali, in base all’ultima rilevazione di Pam e Agenzia delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) – per rischio di “inedia”, uno stato di denutrizione avanzato in cui il corpo comincia a divorare i propri stessi tessuti vitali per sopravvivere. Almeno 8.400 rifugiati interni hanno raggiunto il quinto gradino – detto “catastrofico” – nella tragica scala dell’insicurezza alimentare. Shiclove, 9 mesi, non sa di rientrare nella categoria mentre tende il braccino all’operatore di Medici del mondo. Né lo sa la mamma, Esperance, 25 anni: sgrana gli occhi quando vede il metro avvolgerlo e oltrepassare, inesorabilmente, la tacca rossa. Stringe al petto la piccola, il cui corpo esilissimo si perde nella gonna di tulle rosa. Una minuscola principessa creola. È uno dei pochi abiti scampati all’incendio della sua casupola a Solino, uno degli epicentri dell’attuale battaglia urbana tra polizia e le gang. Lo scorso ottobre, queste ultime hanno raso al suolo buona parte del quartiere per dimostrare il proprio controllo sul territorio. «Che cos’altro potevo fare se non scappare?», domanda, come se parlasse a se stessa, Esperance. È arrivata in questa scuola il 13 ottobre insieme alla figlia, all’epoca appena nata. Da allora non lavora. «Vendevo cibo per strada. Qui come faccio? Mangiamo quello che troviamo – racconta –. Vorrei fosse di più per Shiclove. Lei piange ma quando canto si calma. Non ho altro da offrirle».

«Purtroppo il caso di Shiclove è drammaticamente comune: nei campi per sfollati di Port-au-Prince, quasi un terzo dei bimbi è malnutrito – spiega Cassandra Jean François, direttrice del settore umanitario di Medici del mondo –. Ogni settimana, quando veniamo, ci troviamo di fronte cinquecento persone in fila. È impossibile vedere tutti. Partiamo dalle situazioni più gravi ma non è facile scegliere». Le emergenze si moltiplicano. «Senza acqua corrente e con soli tre bagni, le malattie più comuni sono infiammazioni, problemi gastrointestinali, dermatiti – racconta Myrlande Nore ia, operatrice del Pam –. Poi c’è la violenza: le liti sono quotidiane e spesso sfociano in tragedia. Negli ultimi quattro mesi, ci sono stati almeno cinque stupri. Questi sono quelli che abbiamo potuto registrare. Il dramma principale, però, resta la fame». La violenza asfissia l’economia facendo schizzare l’inflazione: i prezzi del cibo sono cresciuti nel 37,5 per cento nel giro di un anno. Il commercio informale – principale attività da cui dipende la popolazione – è paralizzato, i mercati chiusi, i campi, già inariditi dal disboscamento e dal riscaldamento globale, rimangono incolti. Specie ora che la coalizione di gang Viv Ansame, guidata da Jimmy Chérizier alias Barbecue e appena inclusa nella lista nera delle organizzazioni terroristiche dall’Onu, ha cominciato la conquista dell’Artibonite, la valle che si estende oltre la capitale, cuore dell’agricoltura haitiana. La linea del fronte ormai passa per Mirabalais, una sessantina di chilometri a nordest di Port-au-Prince. Proprio là, di fronte all’inerzia del fragilissimo Consiglio di transizione, del premier, Alix Didier Fils-Aimé, e della comunità internazionale, una folla disperata ha preso d’assalto l’impianto idroelettrico che rifornisce il resto della nazione.

Il buio in cui Haiti è precipitata per la seconda volta nel giro di un mese è la metafora dell’invisibilità della sua agonia sul palcoscenico globale. A un anno dal dispiegamento, la forza multinazionale a guida keniana ha raggiunto a malapena la metà dei 2.500 agenti indispensabili per operare. «Senza pace, non è possibile attenuare la fame di Haiti», sottolinea Lola Castro, direttrice del Pam in America Latina. Il dramma, anzi, rischia di aggravarsi con la stagione degli uragani a cui il Paese, privo di risorse, è particolarmente vulnerabile. Le coltivazioni, già scarse, difficilmente sopravviveranno alle tredici tempeste tropicali in arrivo. Serafine ha 12 anni ma ne dimostra la metà. Attende con indifferenza il turno di visita nell’ambulatorio. La sua attenzione è concentrata sulla lavagna e sul foglio di carta dove copia le lettere e le divide in vocali e consonanti. «Fa i compiti. Sa, dopo quasi sei mesi dalla fuga da Solino, può di nuovo frequentare la scuola. È qui vicino. Per pagare la retta di 15 dollari l’anno – qui non ci sono istituti pubblici –, divido a metà la razione di cibo che mi danno e la rivendo – conclude la madre, Magalie, 44 anni –. Alla fine guadagno quanto prima quando facevo l’ambulante ma dovevo pagare tre dollari al giorno di pizzo alle bande. Non ce la facevo più: anche se non ci avessero attaccato sarei andata via comunque. È stato duro all’inizio. Ma ora, con la scuola, va meglio: Seraphine è di nuovo felice. Alla fine qualcosa di buono accade».

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