martedì 31 marzo 2020
Dallo Yemen alla Colombia cresce il fronte la tregua globale chiesta dall'Onu e rilanciata da papa Francesco. Ma per gruppi radicali e regimi la crisi è un'occasione
Bimbo prega sulla tomba del padre morto nel conflitto a Sanaa

Bimbo prega sulla tomba del padre morto nel conflitto a Sanaa - Ansa

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La pandemia di Covid-19 non è una guerra, nonostante il frequente ricorso al linguaggio bellico per descriverla. Si tratta di una grave emergenza sanitaria che flagella l’intero pianeta. Proprio il suo espandersi a livello globale, polverizzando di colpo barriere e frontiere, però, produce un impatto sui conflitti in corso nel globo. Almeno trentatrè, secondo l’ultima mappa – 2019 – del International institute of strategico studies (Iiss) di Londra. Considerando il numero di Paesi che interferiscono su tali scenari, senza scendere in campo direttamente, buona parte del pianeta è in armi.
Una vera e propria «guerra mondiale a pezzi», ha detto in più di un’occasione papa Francesco. Su cui il coronavirus produce un “effetto Giano”, cioè duplice e opposto. Da una parte, cresce la forza disarmata di quanti si spendono per mettere fine a «ogni ostilità bellica, favorendo la creazione di corridoi per l’aiuto umanitario, l’apertura alla diplomazia, l’attenzione a chi si trova in situazione di più grande vulnerabilità. L’impegno congiunto contro la pandemia possa portare tutti a riconoscere il nostro bisogno di rafforzare i legami fraterni come membri dell’unica famiglia urbana». La voce di Francesco ha tremato due volte quando domenica, al termine dell’Angelus, ha rilanciato con tono accorato l’appello al cessate il fuoco globale delle Nazioni Unite. Lunedì scorso, il segretario generale, Antonio Guterres, aveva chiesto alle parti in conflitto di fermare subito i combattimenti. «La furia del coronavirus mostra la follia della guerra», aveva detto Guterres.

Il segretario Onu, Antonio Guterres da papa Francesco

Il segretario Onu, Antonio Guterres da papa Francesco - Ansa

Le sue parole hanno prodotto, in punta di piedi, timidi passi avanti in una serie di contesti critici, dal Camerun allo Yemen, nel corso dell’ultima settimana. I primi ad accogliere l’invito sono state le varie guerriglie filippine che, da giovedì scorso, hanno dichiarato il cessate il fuoco fino al 15 aprile. Il giorno successivo, il Southern Camerrons defence forces (Socadef), una delle milizie separatiste anglofone in conflitto con il governo centrale camerunense di Paul Biya, ha deciso di sospendere le operazioni per quattordici giorni per consentire alle autorità di effettuare i test per il Covid-19 nell’area. Purtroppo le altre milizie non hanno ancora seguito il Socadef, ma si tratta, comunque, di uno spiraglio in una guerra mediaticamente “invisibile” che ha fatto oltre tremila morti e 700mila sfollati. Una tregua umanitaria è stata chiesta anche dai curdi delle Forze democratiche siriane impegnate nella “battaglia di Idlib”. Ieri, dopo un estenuante tira e molla, anche il conflitto in Yemen s’è fermato dopo cinque anni di violenza incommensurabile. Almeno sulla carta. Il governo sostenuto dai sauditi e i ribelli Houthi filo-iraniani hanno accettato si sospendere le ostilità che hanno causato ucciso almeno 12mila civili e causato la morte per fame e malattie di altri 230mila. La peggior catastrofe umanitaria del momento, la considera l’Onu, il cui inviato speciale, Martin Griffiths, ha in programma una riunione a breve affinché le parti «traducano le dichiarazioni in fatti». Dopo l’appello del Papa, infine, l’Ejercito de liberación nacional (Eln), la più grande e antica guerriglia colombiana, dopo la rinuncia alle armi delle Farc, nel 2016, ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale di un mese. Un «gesto umanitario», l’hanno definito i vertiti del gruppo armato nel comunicato.


Un guerrigliero dell'Esercito di liberazione nazionale

Un guerrigliero dell'Esercito di liberazione nazionale - Ansa


A questo effetto positivo di interruzione, seppur momentanea, delle operazioni belliche, si somma un impatto di segno opposto. I poteri centrali impegnati nello sforzo di combattere l’epidemia, diventano bersagli più facili per le formazioni estremiste, come sottolinea il politologo Bertrand Badie e come l’intensificazione degli attacchi dei jihadisti in Africa occidentale. Non solo. Sistemi autoritari di vario segno – come afferma la relatrice speciale Onu per i diritti umani, Fionnuala Ni Aolin – stanno utilizzando il virus come giustificazione per legittimare «un’epidemica compressione» delle libertà individuali. Dalle Filippine alla Thailandia alla Giordania, cresce la tendenza dei leader di arrogarsi «poteri speciali» con finalità non proprio sanitarie. È acceso, infine, il dibattito sugli analisti a proposito del futuro dello scenario bellico del coronavirus. Alcuni ribadiscono il rischio di incremento della conflittualità sociale e politica. Una sorta di “effetto Spagnola” che, oltre non aver fermato la Prima guerra mondiale un secolo fa, contribuì a preparare la crisi degli anni Venti e Trenta. Altri, invece, ipotizzano che la cooperazione anti-pandemia possa prolungarsi nel post-Covid. Impossibile fare previsioni. Di certo, però, la crescita di atteggiamenti di solidarietà internazionale nel presente influirà sul futuro, più o meno prossimo.

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