martedì 7 gennaio 2020
La morte di Soleimani è un'occasione per Teheran per ricercare il consenso interno, a due mesi dall'ondata di proteste contro il governo costate almeno 200 morti
Folla al corteo per la sepoltura di Soleimani a Kerman, sua città natale

Folla al corteo per la sepoltura di Soleimani a Kerman, sua città natale - Ansa

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La morte di Qassem Soleimani sta fornendo agli ayatollah una grande spinta per ricompattare la popolazione attorno al regime, sfruttando il nome del generale a due mesi dall’ondata di proteste che ha provocato almeno duecento morti in diverse città dell'Iran.

La salma di Soleimani è, infatti, al centro di un’inedita mobilitazione popolare attraverso una “peregrinatio” in tutto il Paese che ricorda il giro organizzato nel 2016 a Cuba per rendere omaggio a Fidel Castro, percorrendo al contrario il medesimo viaggio di 900 chilometri fatto nel 1959 dal Líder Maximo e i suoi “barbudos”. Dopo il primo corteo funebre indetto nelle vie di Baghdad, una marea umana di iraniani ha accolto sabato il corpo di Soleimani ad Ahzaz, sul confine con l’Iraq, per ricordare l’esperienza bellica del generale ucciso nel corso della lunga guerra Iran-Iraq (1980-1988). Dopo ha preso il volo verso la città santa sciita di Mashad, nell’estrema parte nordorientale del Paese, per fare successivamente ritorno a Teheran e a Qom, rispettivamente la capitale politica e religiosa dell’Iran. Oggi, approderà alla sua ultima tappa di Kerman, la città natale di Soleimani, dove sarà finalmente sepolto.

Nelle diverse tappe, è lo stesso scenario che si presenta. Una folla immensa si accalca attorno alle bare che attraversano a stento le vie cittadine. Piange e chiede vendetta. Contrariamente ai seguaci della dottrina wahhabita che biasima il pianto sul morto considerandolo una sorta di «ribellione» alla volontà divina, gli sciiti lasciano libero sfogo alle proprie espressioni di lutto. Lo stesso Soleimani era stato ripreso in lacrime al funerale del commilitone Hassan Shateri, un generale dei pasdaran ucciso nel 2013 sulla strada che porta da Damasco a Beirut. Molti issano bandiere colorate sciite con la scritta «Intigam» (Vendetta, ndr) oppure poster freschi di stampa che ritraggono Soleimani, presentato come «shahid» (martire) e «hajj», il titolo che porta chi effettua il pellegrinaggio alla Mecca. Che Soleimani sia un «martire» non ha ombra di dubbio per nessuno di loro. Sulla camionetta che porta i corpi dei caduti, i pasdaran faticano a restituire alla folla le keffiah o altri indumenti dopo averli strofinati contro le bare a mo’ di benedizione. Sulla bandiera che avvolge la bara del generale una scritta in persiano: «Sardar-e sepahbod-e shahid Qassem Soleimani», il comandante generale martire. Ieri, lo stesso ayatollah Khamenei ha sostato davanti a questa per dare l’ultimo saluto al «martire vivente», trattenendo a stento la sua emozione.

Le gigantografie seminate da Hezbollah nei quartieri sciiti di Beirut inneggiano addirittura a «sayyed alshuhadà», al signore dei martiri, mentre quelle distribuite a Gaza dai diversi movimenti palestinesi vicini a Teheran lo presentano più cautamente come «grande leader e generale martire».

La fantasia iraniana – cara all’iconografia post-rivoluzionaria – raggiunge l’apice con un quadro che ritrae un sorridente Soleimani accolto festosamente in Paradiso dall’imam Hussein, il martire sciita per eccellenza, raffigurato di spalle per non infrangere un tabù islamico. Attorno ai due, si stagliano le figure di Khomeini e di una decina di militanti «martiri». Tra questi, il pasdaran Hassan Tehrani Moghaddam, “padre” del programma missilistico iraniano rimasto ucciso in una esplosione nel 2011, e Imad Mughnieh, comandante militare dell’Hezbollah, ucciso in circostanze misteriose nel 2008 a Damasco. Il titolo: «Al tuo comando, imam Hussein!».

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