lunedì 5 ottobre 2020
Lo scontro frontale con il Cairo e la Ue ha per teatro il Mediterraneo Orientale, mentre in Azerbaigian e in Siria il reis disputa altre due partite con Emirati, Arabia Saudita e con la Russia
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan - Reuters

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L’ombra lunga delle ambizioni turche nel Mediterraneo, nel continente africano, nel Vicino Oriente, nel Caucaso non conosce incertezze. Per sua natura, la visione neo-ottomana del presidente Recep Tayyep Erdogan e della parte di società che in lui si riconosce non può neanche contemplare il concetto di limite. Al contrario, agli avversari regionali – arabi ed europei – molteplici guanti di sfida vengono recapitati ormai senza sosta.
Ad alcuni più di altri, con una accelerazione che fa temere il peggio. Lo scontro frontale con gli interessi dell'Egitto di Abdel Fattah al-Sisi avviene in Libia, in Sudan, nei Paesi del Corno d'Africa, nel Mediterraneo Orientale e pure nelle lotte intestine palestinesi. Quello con Arabia Saudita ed Emirati anche in Siria e Yemen. Ora l'ennesimo ring su cui i pesi massimi della Lega Araba e il sultano Erdogan stanno salendo è il Nagorno-Karabakh, povero ma strategico lembo di terra fra Armenia e Azerbaigian di cui nessuno si ricorda. Tranne quando il nemico cerca di appropriarsene definitivamente.
La Turchia vi sta riversando quanto di peggio è rimasto ad Aleppo e Idlib fra i mercenari già impiegati sul campo in Siria. Quelli che hanno visto partire i loro commilitoni per i lidi libici e sono rimasti, mani in mano, ad attendere un nuovo girone infernale in cui fare la propria parte. Gente che è sempre meglio finanziare e spedire altrove, piuttosto che riportarla a casa. Milizie esperte, se all'estero; terroristi invasati, quando bivaccano in cortile. E Ankara, nell'aia di casa, non li vuole, siano essi uighuri dello Xinjang (quel Turkestan in terra cinese in cui Erdogan è un paladino dell'Islam bistrattato) o ceceni. Secondo i servizi segreti francesi, come ha illustrato il presidente Emmanuel Macron alla stampa internazionale a Bruxelles, «circa 300 combattenti hanno lasciato la Siria per Baku (capitale dell'Azerbaigian, ndr), passando per Gaziantep», città turca dell'Anatolia sudorientale. E ancora: «Si tratta di jihadisti conosciuti che operano nella zona di Aleppo, altri contingenti sono in preparazione, più o meno della stessa dimensione», ha aggiunto il presidente francese.
Per intenderci, si parla degli stessi uomini che la Turchia ha scelto di finanziare per sbaragliare i curdi di Kobane e Afrin. Sono quelli cui i satelliti militari vedevano fare avanti e indietro, sulle jeep o i blindati, lungo il confine turco-siriano fra il 2014 e il 2015, quando il sedicente Stato islamico terrorizzava il mondo occidentale con la sua inaspettata capacità di conquista territoriale. Jihadisti, per così dire, a contratto.
Ebbene, non è vero che quel bacino di ombre nere si è prosciugato, così come non è vero che la guerra in Siria è terminata. Semmai si è cristallizzata nella nostra percezione, superata da altre emergenze e prime pagine. La Siria è il pozzo senza fondo in cui non osiamo più guardare per non farci cogliere dalle vertigini. Adesso il pifferaio magico degli scarti del jihad, da Ankara, suona per convenienza verso il Caucaso: la sua è una melodia solo debolmente confessionale. L'Azerbaigian è un Paese a maggioranza musulmana sciita che non piace agli ulema più ortodossi: fa affari con Israele nei settori energetico e della difesa; appoggia, appunto, il nazionalismo neo-ottomano di Erdogan, a sua volta condannato dai salafiti perché “secolarizzato”; e sta all'Iran, campione della “Shia” nel mondo, come un cadetto al fratello maggiore. A tal punto che sei province iraniane, nel Nord-Ovest della Repubblica Islamica, si chiamano appunto Azerbaigian, a memoria sempiterna di quando i due Paesi erano una cosa sola. Vale la pena di combattere per i fratelli azeri? Non è scontato che i jihadisti più ideologizzati accorrano. Sul fronte opposto, però, c'è chi pensa che valga la pena di combattere per i fratelli armeni, seppure cristiani: Erevan ha invocato il sostegno del Cairo, primo Paese arabo a riconoscerne l'indipendenza, nel 1990, e da allora alleato. In Europa, l'Armenia può contare sull'appoggio francese.
E il déjà-vu ritorna: Ankara contro la Lega Araba, che in svariati scenari va a braccetto con Parigi. Ankara che fa lo sgambetto a Mosca, pragmaticamente sempre pronta a dialogare, dispiegando però sul campo la brigata Wagner.

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