sabato 13 febbraio 2021
Il presidente al-Sisi ha ricordato l'anniversario con parole vaghe. Mentre nelle sue carcere restano decine di migliaia di oppositori, reali e presenti. Tra loro Patrick Zaki
L'addio del presidente Hosni Mubarak

L'addio del presidente Hosni Mubarak - Ansa

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Non sarebbe del tutto onesto dire che nell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi non c’è più spazio, dieci anni dopo, per la memoria e la celebrazione della rivoluzione del 2011. Lo stesso presidente ha voluto ricordare le speranze e le rivendicazioni portate in piazza da milioni di egiziani fino alle dimissioni di Hosni Mubarak (l’11 febbraio del 2011, ndr), nel corso di un’intervista concessa al giornalista Amr Adeeb, sul canale tv di proprietà saudita Mbc. Al-Sisi si è detto consapevole che la rivoluzione non è finita e ha garantito l’impegno del governo per assicurare alla popolazione egiziana, in costante crescita demografica, milioni di nuove abitazioni e posti di lavoro nei grandi cantieri in programma.
La memoria che il regime di oggi concede agli egiziani, dunque, proprio come un setaccio che separa la farina bianca dalla crusca, privilegia scientemente leitmotiv senza tempo, per buttare alle ortiche l’afflato democratico espresso dieci anni fa. D’altronde, fame e miseria sono argomenti che vanno bene per qualsiasi stagione e, soprattutto, nessuno se ne assume mai la responsabilità: non c’è dittatura che non le abbia addossate, a rotazione, a cospiratori stranieri, nemici interni della patria, crisi economiche globali, promettendo di invertire la rotta. Sul finire del primo decennio degli anni Duemila, la mancanza di prospettive economiche e sociali, l’aumento smodato del prezzo dei beni di prima necessità e il taglio ai sussidi ai cittadini fecero saltare il tacito accordo trentennale fra Mubarak e i suoi sudditi: stabilità, sicurezza e assistenzialismo economico in cambio della rinuncia al pluralismo politico. Oggi, a dieci anni dalla caduta del Partito nazionale democratico (Ndp) e del clan presidenziale, constatiamo che il benessere è ancora un affare di pochi. La pandemia ha congelato la ripresa economica, che a fine 2019 cominciava a dare segnali incoraggianti dopo anni di incertezza, anche regionale. La quota dei disoccupati, soprattutto fra i giovani, su una popolazione di oltre cento milioni di abitanti, è alta.

Le proteste del gennaio 2011

Le proteste del gennaio 2011 - Ansa


E la democrazia? Marcisce in una cella umida e buia nelle sezioni politiche delle prigioni, assieme a giornalisti, intellettuali, dissidenti, sostenitori della Fratellanza musulmana in primis, ma anche un esercito di ombre senza nome. Sono decine di migliaia i cittadini semplici finiti nelle maglie dei servizi segreti per una “parola sbagliata” contro le autorità, un post, un commento pronunciato a mezza bocca in un luogo pubblico. Fra di loro, da un anno, vi è anche Patrick George Zaki, studente egiziano del master in Studi di genere dell’Università di Bologna, in regime di carcerazione preventiva per «diffusione di notizie false», «incitamento alla protesta» e «istigazione alla violenza e ai crimini terroristici».
Non possiamo dirci sorpresi di un esito come questo: a partire dalla destituzione violenta del presidente eletto Mohammed Morsi, nel luglio del 2013, seguita dalla repressione nel sangue dei suoi sostenitori, il feldmaresciallo al-Sisi – peraltro creatura di Mubarak, prima, come più giovane membro del Consiglio supremo delle Forze armate, e di Morsi, poi, come ministro della Difesa – si è dimostrato subito disposto a tutto, pur di restaurare l’ordine precostituito. E così è stato: passo dopo passo, a colpi di emendamenti costituzionali, referendum plebiscitari, nomine strategiche – di ufficiali a lui fedelissimi e pure di membri della sua famiglia – ai vertici dello Stato e nelle aziende pubbliche, il presidente si è assicurato un controllo capillare sul Paese almeno per un altro decennio. Sempre che si confermi il «dittatore preferito» della Casa Bianca. La concorrenza regionale, si sa, è feroce.

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