venerdì 16 aprile 2021
L’ottavo Congresso del Partito comunista cubano che si apre oggi rinnoverà la dirigenza: il vecchio segretario passerà lo scettro al delfino Díaz-Canel, che gli è già subentrato alla presidenza
L’ultimo Congresso del Partito con entrambi i fratelli Castro, nell'aprile 2016. Sopra, un giovane Raúl con Ernesto Che Guevara nel 1960 a Cuba

L’ultimo Congresso del Partito con entrambi i fratelli Castro, nell'aprile 2016. Sopra, un giovane Raúl con Ernesto Che Guevara nel 1960 a Cuba - Archivio

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La Revolución ha perso la «r». E, dopo sessantadue anni, ha iniziato il cammino, meno appariscente, della Evolución. Era il 2016 quando Raúl Castro, sul palco del VII Congresso del Partito comunista cubano, aveva preannunciato il nuovo corso: «Questo sarà l’ultima assise della generazione storica». In realtà, il quasi novantenne primo segretario sarà presente al vertice che si apre oggi all’Avana. E i “grandi vecchi”, protagonisti dell’epopea insurrezionale, sono ampiamente rappresentati fra i 300 delegati.
Ma il loro ruolo, stavolta, sarà quello di passare il testimone – alias gli incarichi direttivi – ai “giovani". Categoria quest’ultima più politica che anagrafica: indica quanti non hanno combattuto contro la dittatura di Fulgencio Batista e sono entrati nell’Olimpo verde-oliva salendo, gradino dopo gradino, la lunga scala gerarchica del sistema rivoluzionario ormai insediato.

È il caso di Miguel Díaz-Canel, 62 anni, successore di Castro alla presidenza e, con tutta probabilità, a meno di insoliti colpi di scena, alla guida del partito. Ruolo che quest’ultimo aveva mantenuto, come il comando delle Forze armate, nello sforzo di diluire il potere nel complesso passaggio di consegne. Ora, però, le due cariche torneranno ad accentrarsi nella figura di Díaz-Canel, a tre anni esatti dalla sua designazione come capo dello Stato. Nella coreografia rivoluzionaria cubana, le date non sono mai causali: il 19 aprile, conclusione del Congresso e nomina della nuova dirigenza, è il sessantesimo anniversario della vittoria dei barbudos sugli invasori finanziati da Washington, alla Baia dei porci. Il leitmotiv della continuità scandisce, dunque, il rinnovamento, in un processo minuziosamente pianificato dal Castro minore.

Un giovane Raúl con Ernesto Che Guevara nel 1960 a Cuba

Un giovane Raúl con Ernesto Che Guevara nel 1960 a Cuba - Archivio


Fin dal 4 febbraio 2008 quando, dopo due anni di interim, ha sostituito il fratello nella leadeship, quest’ultimo, già 76enne, ha avuto ben chiara la necessità di costruire il proprio ritiro, in modo da poterlo controllare ed evitare di essere colto in fallo dalla biologia. Come accaduto a Fidel, il quale, comunque, aveva potuto contare su un successore garantito, con cui condivideva cognome, geni e tragitto politico. Raúl no. A lui è toccato disegnare un castrismo senza Castro. Su sua proposta, dunque, nel 2011, il Partito ha deciso il limite di due mandati consecutivi per le massime cariche dello Stato. Cinque anni dopo, al successivo Congresso, sono arrivati i limiti di età per i vertici della formazione unica, cuore politico del regime: 60 anni per il comitato centrale, 70 anni per il segretariato e il “burò”.

Fidel Castro dopo la vittoria militare  a Santa Clara  il 29 dicembre 1958

Fidel Castro dopo la vittoria militare a Santa Clara il 29 dicembre 1958 - Archivio

Raúl ha scelto di auto-escludersi per trasformarsi in una sorta di «garante terzo». Ora la palla, però, passa a Díaz-Canel, burocrate fedele ed efficiente ma “invisibile”: i cubani hanno iniziato a conoscerlo solo dal 2018. In realtà, l’esordio non è stato dei migliori. Gli ultimi tre anni sono stati tra i più difficili del passato recente. Per utilizzare una colorita espressione cubana, «finora a Díaz-Canel è toccato ballare con la ragazza più brutta della festa». Ovvero confrontarsi con Donald Trump e la sua determinazione a ridurre Cuba a contropartita per garantirsi il sostegno elettorale delle frange anticastriste radicali della Florida. Durante la precedente Amministrazione, Washington ha imposto 280 sanzioni all’«ultima isola», riportando l’orologio dei rapporti tra i due Paesi ai momenti più drammatici della Guerra fredda. L’economia ne è uscita a pezzi.

La pandemia ha inferto un colpo durissimo a una nazione già in forte affanno. Il Covid ha congelato il flusso di turisti internazionale, settore chiave per le finanze: nel 2020, dunque, il Pil è crollato dell’11 per cento, il peggior dato dal 1993. Allora, il tonfo era dovuto alla fine dell’Unione Sovietica e dei suoi generosi aiuti. Fattori che avrebbero precipitato Cuba nel tunnel del Periodo especial, da cui sarebbe uscita grazie alla mano tesa del Venezuela chavista e a piccoli cedimenti al mercato. Con Caracas in crisi, a Díaz-Canel non resta che puntare sulle riforme economiche.

Non a caso, la discussione del Congresso – a porte chiuse ma con qualche intervento in tv – ruoterà intorno ai Lineamenti, road map di mutamenti dell’apparato realizzata nel 2011 – all’inizio dell’era Raúl – e ancora in fase di attuazione. L’eliminazione della doppia moneta, ad esempio, è stata realizzata solo quest’anno. E non è stata indolore, come dimostra l’inflazione galoppante e il crescente malumore. Il tempo dei cambiamenti stringe. Privi dello scudo dei Castro, Díaz-Canel e gli altri “giovani” sanno di dovere dare risposte. Ora, però, il presidente e probabile segretario ha un vantaggio: la «più brutta della festa» ha lasciato la Casa Bianca. Con Biden si aprono nuove danze. E i due Paesi potrebbero trovare un ritmo comune.

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