sabato 12 novembre 2022
Muro dei Grandi contro la richiesta di compensazione del Sud del mondo per i danni all'ecosistema. Gli Usa guidano il fronte dei contrari
L'esodo degli sfollati delle alluvioni in Pakistan nel settembre scorso

L'esodo degli sfollati delle alluvioni in Pakistan nel settembre scorso - Ansa

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E' la «cartina di tornasole» della credibilità del vertice. Così, nel discorso di apertura, il segretario generale Onu, António Guterres, ha definito la questione dei risarcimenti ai Paesi poveri per danni inflitti loro dal cambiamento climatico che, per altro, non hanno causato. Sette giorni dopo, però, il negoziato non avanza, impantanato nei veti delle grande potenze, Usa in testa. La frustrazione del Gruppo dei 77 – in realtà 134 Stati, guidati dal Pakistan – che, insieme all’Alleanza delle nazioni insulari, porta avanti la battaglia, è palpabile nei corridoi del centro congressi di Sharm el-Sheikh. Sono stati necessari trent’anni – dalla Conferenza di Rio quando il termine venne utilizzato la prima volta – solo perché il dossier risultasse ufficialmente in agenda. Vi è entrato all’ultimo, domenica scorsa, anche grazie alla pressione della presidenza egiziana.
Un segnale positivo, secondo analisti e attivisti. Da allora, però, non si è andati molto oltre. A spegnere gli entusiasmi è stato il negoziatore Ue, Jacob Werksman, il quale ha detto: «I colloqui non sono ancora pronti per arrivare a un consenso». La questione, dunque, con tutta probabilità non comparirà nella bozza che domani verrà consegnata ai rappresentanti dei governi. Nessuno mette in dubbio che la responsabilità dell’attuale crisi climatica gravi sulle spalle dei Paesi industrializzati. Il G20 – che rappresenta il 10 per cento della popolazione mondiale – produce il 75 per cento delle emissioni globali contro il 4,7 per cento dell’Africa, dove risiede, per altro, il 25 per cento degli abitanti del pianeta.
Evidente pure che le catastrofi naturali hanno un impatto infinitamente più devastante nelle nazioni povere, prive delle risorse per proteggersi e con un’economia di sussistenza. L’Intergovernamental panel on climate change (Ipcc) lo ha messo nero su bianco nel suo sesto rapporto: conseguenze letali e fenomeni estremi – come tempeste, inondazioni, siccità – sono quindici volte più probabili in Sud-Est asiatico, America centrale o Africa subsahariana, dove risiedono oltre tre miliardi esseri umani, rispetto al Nord del mondo. Il nodo della contesa è un altro. Il Gruppo dei 77 chiede la creazione di un fondo specifico per le compensazioni.
Questo si aggiungerebbe alla linea di finanziamento per la riduzione delle emissioni e il sostegno all’adattamento, i famosi cento miliardi l’anno per le nazioni in via di sviluppo a partire dal 2020, promessi nel 2009 e tuttora mai raggiunti. Le potenze – tanto gli inquinatori storici che gli emergenti – si oppongono: temono che l’assunzione di responsabilità e il riconoscimento dei danni apra la porta a una serie infinite di dispute legali per risarcimenti astronomici. In effetti, secondo alcuni scienziati, per far fronte alle perdite sarebbero necessari tra i 290 e i 580 miliardi di dollari all’anno. Il punto è – avvertono gli esperti – più si tarda, più gli investimenti necessari lieviteranno, fino a 1.700 miliardi. Tanti, in teoria.
«Eppure 580 miliardi rappresentano la metà dei profitti dei colossi del petrolio e gas», ha detto il premier di Antigua, Gaston Browne. Proprio una tassa ad hoc sui guadagni dei produttori di idrocarburi è la strada che la stessa Onu – oltre al Sud del pianeta – prospetta per finanziare le compensazioni. L’anno scorso, a Glasgow, con un colpo di mano finale, i Grandi hanno eliminato la questione dei fondi dal documento finale. Al posto di un impegno, i 193 Paesi parte della Cop più l’Ue si sono impegnati a un dialogo sulla questione “loss and damage” che dovrebbe arrivare a una conclusione entro il 2024. Le nazioni povere hanno accettato di malavoglia, precisando che sarebbe stata l’ultima concessione.
A Sharm, dunque, sono arrivate determinate a tornare a casa con qualcosa in mano. Se non lo otterranno, non è detto che accettino di sottoscrivere l’intesa finale. A guidare il fronte dei contrari sono gli Stati Uniti che, non a caso, in settimana, hanno proposto di mobilitare i privati – non i soldi pubblici – per aiutare i Paesi in via di sviluppo. Al loro fianco – dice Greenpeace –, sarebbero schierati Nuova Zelanda, Norvegia e Australia. La Cina, dopo un’apertura iniziale, non contribuirà «in forma economica».
Maggiore disponibilità, invece, sarebbe stata mostrata dall’Europa. Alcune nazioni, in modo autonomo, hanno stanziato aiuti. Nei giorni scorsi Danimarca, Germania, Austria, Irlanda e Belgio, hanno seguito la via aperta a Glasgow dalla pioniera Scozia. Spiragli che gli Stati poveri sperano di trasformare in crepe. Anche grazie all’arrivo, martedì, del neo-eletto Luiz Inácio Lula da Silva che punta a fare del Brasile il portavoce del Sud. A sostenere le ragioni dei più vulnerabili tanti tra scienziati e attivisti, laici e religiosi. La delegazione cattolica, presente ai lavori, ha rivolto un toccante appello ai leader mondiali perché «rendano giustizia».
E ieri seicento giovani dei Paesi poveri hanno marciato nella zona blu, quella dei negoziati, per sensibilizzare le parti. Il corteo si è svolto, poco dopo il corteo organizzato da Sanaa Seif, sorella di Alaa Abdel Fattah, il blogger anglo-egiziano, da sette mesi in sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione. La sua famiglia ha appena depositato una nuova richiesta di grazia al presidente al-Sisi.

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