sabato 3 maggio 2025
Movimenti della società civile congolese protestano per i rischi della pace mediata da Washington che, oltretutto, esclude i ribelli dell'M23 che occupano l'Est del Paese
Un miliziano dell'M23 di guardia alla Banca Centrale del Congo a Goma, capoluogo del Nord Kivu nell'Est della Repubblica democratica del Congo

Un miliziano dell'M23 di guardia alla Banca Centrale del Congo a Goma, capoluogo del Nord Kivu nell'Est della Repubblica democratica del Congo - Reuters

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Il popolo dell’Est del Congo non ne può più di violenze, stupri, saccheggi, esecuzioni di massa e fame. L’occupazione militare del movimento filo-ruandese M23 ha stroncato ogni resistenza nel Nord e Sud Kivu. Tuttavia, la "pax americana" voluta da Washington - che prevede garanzie di sicurezza in cambio dell’accesso ai minerali strategici - non convince. «La pace è l’unico orizzonte possibile, ma esistono diverse vie per raggiungerla», scrivono in una lettera aperta 43 intellettuali ed esponenti della società civile, tra i quali il Premio Nobel per la pace Denis Mukwege.

Il 2 maggio a Washington è stato firmato, con la mediazione Usa, un accordo preliminare tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo in vista di un peace deal vero e proprio da sottoscrive entro 60 giorni alla Casa Bianca. Il cuore dell’intero pacchetto però sono i negoziati bilaterali paralleli per l’accesso privilegiato degli Usa alle miniere del Kivu. «Un secondo accordo minerario, sebbene di proporzioni minori, sarà sottoscritto anche con il Ruanda», ha confermato alla Reuters il negoziatore di Trump Massad Boulos da Doha. È questa la nota dolente: il doppio binario non piace a persone come Guy Mathe, consulente internazionale di Nexus Paix, tra i promotori dell’appello. «I processi di Doha e Washington – si legge nella lettera - hanno aperto nuove dinamiche di negoziazione, ma noi esprimiamo riserve sui negoziati in corso». Il potenziale via libera agli investimenti di Trump su coltan, litio e cobalto nel Kivu, è considerato un tradimento. «I parchi nazionali e le risorse naturali di cui abbonda il nostro Paese possono contribuire alla pace ma solo a condizioni eque», scrivono docenti e professionisti. «Vi esortiamo perciò signor Presidente, a non svendere le nostre risorse al regime di Kigali nell’ambito dell’integrazione economica regionale promossa sotto l’egida del padrino americano». Tra i più scettici verso la strategia americana c’è Lucha, “Lotta per il Cambiamento”, che si batte per la democrazia. Al telefono dal Nord Kivu, Steward Muhindo di Lucha, dice: «Ci suona strano che all’improvviso Trump, che non ama l’Africa né gli africani, si interessi a noi. È soprattutto inaccettabile la presenza del Ruanda, il Paese che ci ha invaso tramite l’M23, al tavolo della spartizione mineraria».

Il timore è che sia legittimato il ruolo di "triangolazione" economica del Ruanda. Don Davide Marcheselli, missionario a Kitutu, nel Sud Kivu ricco di miniere d’oro gestite illegalmente dai cinesi, dice che «si intravede la stessa logica usata in Ucraina per la cessione delle terre rare». Tuttavia, fa notare che il Congo «non è l’Ucraina, è un Paese già colonizzato: nel Nord e Sud Kivu ci sono i cinesi. Il presidente Tshisekedi ha da tempo un rapporto privilegiato con Pechino. Come potrà disimpegnarsi dalla Cina per far entrare in gioco qualcun altro?». Inoltre, dice, l’M23 «non è stato invitato ai colloqui di pace, questo potrebbe provocare una ritorsione militare». Non sarà facile convincere le milizie ad andarsene dai territori occupai. Il metodo americano del "do ut des" applicato alla pace è considerato cinico verso chi ha già subito saccheggi e perdite e dovrebbe essere risarcito.

Più possibilista è Acmej, un altro gruppo della società civile con sede nella valle del Ruzizi. «La popolazione rurale dell’Est del Congo si dice contenta di questa Cooperazione diplomatica tra gli Stati Uniti e la Rdc – scrive - ma ne attende la concretizzazione senza ipocrisie, con la speranza che porti pace, sicurezza e sviluppo socio-economico a tutti».

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