I cristiani di Taybeh sono stati di nuovo attaccati dai coloni
Blitz di un commando: «Via gli arabi o morte». Tajani chiama Pizzaballa: «Vanno fermati»

«Bimbi, famiglie, qui tutti viviamo ormai nel panico. Il primo pensiero, ogni mattina è: “Quando avverrà il prossimo attacco?”. Perché avverrà...». Padre Bashar Fawadleh è avvilito. Nella notte tra domenica e lunedì, un commando di coloni ha fatto irruzione a Taybeh, villaggio a trenta chilometri da Ramallah. L’unico della Cisgiordania in cui tutti i 1.300 abitanti sono cristiani. «Mi sono svegliato di colpo alle 2.20 per il tonfo delle detonazioni. Gli aggressori sono entrati nella parte nord-orientale della comunità, hanno raggiunto il complesso della chiesa greca-ortodossa e hanno fatto esplodere due auto», racconta il sacerdote della parrocchia del Cristo Redentore. Poi, hanno dato fuoco a una terza auto e lanciato sassi contro varie case. Prima di fuggire, hanno lasciato la loro “firma”. «Fuori gli arabi o morte», «Vi pentirete», hanno scritto, in ebraico, sui muri. È stato il quarto blitz nel giro di un mese.
Il più grave lo scorso 7 luglio quando hanno incendiato il cimitero e la chiesa bizantina di Saint George al-Khader, la più antica dei Territori, che ospitò Charles de Foucald nel 1898.
L’episodio ha suscitato la condanna internazionale. «Di fronte a tali minacce, il più grande atto di coraggio è continuare a chiamare questa terra casa vostra. Siamo al vostro fianco, sosteniamo la vostra resilienza e vi preghiamo», ha detto il patriarca Pierbattista Pizzaballa il 14 luglio quando si è recato a Taybeh insieme ai capi delle Chiese di Gerusalemme in segno di solidarietà. Cinque giorni dopo, il villaggio ha ricevuto l’ambasciatore Usa in Israele, Mike Huckabee. Evangelicale e ultraconservatore, il diplomatico ha definito «inaccettabile» la profanazione dei luoghi di culto. Ieri, dopo l’ennesimo raid, il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha chiamato il cardinale Pizzaballa per esprimere la propria vicinanza. «Il governo di Israele deve agire per fermare queste incursioni», ha detto e ha aperto all’adozione di nuove sanzioni Ue nei confronti dei coloni violenti. Da oltre un decennio, la fascia tra Gerusalemme e Gerico è tra gli epicentri della “conquista” dei Territori. Un processo di appropriazione delle terre e espulsione degli abitanti locali in modo da rendere impossibile nei fatti la costituzione di uno Stato palestinese. I protagonisti – come denunciato da Kerem Novot e Peace Now, organizzazioni israeliane specializzate nel monitoraggio degli insediamenti – sono gli avamposti o outpost: distese di campi e pascoli gestiti da pochi pionieri, spesso una sola famiglie. Per espandersi, impiegano milizie private di adolescenti e giovani, in genere reclutati grazie a una rete di una decina di Ong che “recuperano” ragazzi difficili attraverso programmi di lavoro volontario o quasi in campagna.
Dal 7 ottobre il fenomeno è esploso: se prima ne venivano formati sette nuovi all’anno, ora il numero la media è sette volte tanto. Insieme agli outpost sono cresciute le violenze, rivolte – come sottolinea Vatican News – contro tutti i palestinesi di qualunque religione, inclusi i cristiani. Il 4 giugno scorso, un avamposto è spuntato sulla collina orientale di Taybeh. Una costola della “Neria’s farm”, dell’estremista religioso Neri ben Pazi, sanzionato dall’Amministrazione Biden e dalla Gran Bretagna. Poco dopo sono cominciati gli attacchi, portati avanti dai “banditi ragazzini” sfruttando l’impunità diffusa. La polizia ha negato le responsabilità dei coloni nell’incendio di Saint George. Ieri, l’esercito, chiamato dai residenti dopo l’incursione, è arrivato dopo un’ora.
La guerra ha Gaza ha reso la Cisgiordania una polveriera. Nelle ultime settimane, la carestia in corso hanno acuito ulteriormente la tensione insieme alla pressione internazionale. Dalla Scozia, ieri, Donald Trump ha riconosciuto la presenza nella Striscia di «molta gente affamata», contraddicendo le parole del premier Benjamin Netanyahu che, domenica, aveva negato la crisi. Il presidente Usa ha riconosciuto anche «la grande responsabilità israeliana sugli aiuti» e annunciato l’apertura di un centro di distribuzione. Più che altre strutture, il nodo resta la consegna. Da due giorni, l’esercito di Tel Aviv ha previsto delle pause tattiche nei combattimenti a Gaza City, al-Mawasi e Deir al-Balah e “percorsi sicuri” per far passare i convogli umanitari. L’Onu è riuscita, così, a distribuire il contenuto di 120 camion, altri 6mila sono in attesa di entrare. Questo non ha impedito che altre 14 persone morissero per fame secondo il ministero della Sanità, controllato da Hamas, portando il bilancio 147 dall’inizio del conflitto. A questi si sommano 98 uccisi nei combattimenti, sempre secondo le autorità locali. Con la rottura del negoziato, non si vede la fine imminente della strage.
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