
Gli operatori della Mezzaluna rossa nell'Hub2, uno dei due magazzini dove sono stoccati gli aiuti per Gaza - L.Liv.
Tornano gli aiuti a Gaza, forse. Ma come? E distribuiti da chi? Lo spiraglio annunciato dal governo di Israele di riaprire i confini della Striscia ai rifornimenti umanitari riaccende il dibattito su chi deve fornire cibo, medicinali e attrezzature vitali alla stremata popolazione palestinese. Mezzaluna rossa e Agenzie delle Nazioni Unite si dichiarano assolutamente pronte. Ma la volontà dichiarata di Tel Aviv, e sostenuta dagli Usa, di delegare tutto a società private comporta rischi di un uso strumentale e non trasparente degli aiuti. Le Ong italiane, arrivate a Rafah per riaccendere i riflettori anche su questo tema, sono nettamente contrarie alla privatizzazione e militarizzazione. E le stesse agenzie Onu lasciano trapelare grande preoccupazione.
I magazzini ad Al-Arish nel Sinai egiziano, 50 chilometri dal valico di Rafah chiuso a doppia mandata da due mesi e mezzo, sono stracolmi di tutto quello che a Gaza servirebbe. E che manca. «Noi da qui siamo pronti a inviare gli aiuti nella Striscia, appena riaprono», assicura Lofty Gheith, capo delle operazioni a Rafah della Mezzaluna Rossa. Nell’Hub Numero uno da 30 mila metri quadri stipato di aiuti di ogni genere, perfino ambulanze, Gheith ci tiene a ribadire che l’organizzazione per cui lavora si ispira al principio di neutralità. Ma è un fatto, spiega, che «l'Egitto è pronto, è Israele finora che ha bloccato l’invio di aiuti. Noi in questi due mesi abbiamo sempre continuato a lavorare per conservare le donazioni di cibo, medicine e attrezzature donate dalle agenzie internazionali delle Nazioni Unite e dalle ong».
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Derrate alimentari che da due mesi e mezzo attendono di essere portate a Gaza - L.Liv.
Lo ribadisce anche il suo collega Mostafa Ibrahim, capo della missione a Rafah della Mezzaluna rossa, qui nell’Hub Numero 2 poco distante, il più grande, 50 mila metri quadrati con hangar e celle refrigerate per conservare vaccini e insulina. «Abbiano centinaia di tir e di autisti già pronti, fermi e che ci costano ognuno 100 euro al giorno», dice Ibrahim, allargando le braccia. La macchina delle agenzie internazionali è preparata. Una fonte locale delle Nazioni Unite, che non vuole essere citata, ricorda che «dopo il cessate il fuoco, in 24 ore abbiamo fatto partire un meccanismo da 1.000 tir al giorno». Derrate, mezzi e organizzazione logistica non mancano.
Lo stesso interlocutore Onu esprime grande preoccupazione per la volontà di Israele di infliggere l’ennesimo schiaffo alle Agenzie internazionali Onu – dopo il bando dell’Unrwa e gli attacchi al segretario generale Guterres definito «persona non grata» - privatizzando l’aiuto umanitario. Lo dice solo a patto di non apparire: «Trasformare la distribuzione di aiuti in una impresa in cui attori privati agiscono come impresa commerciale - è il suo ragionamento - cambia tutto il paradigma. Sarà un precedente pericoloso: distribuire aiuti non per motivi umanitari, ma per fare profitto». Per l’operatore umanitario «si rischia di usare gli aiuti come strumento politico, o addirittura di guerra, strumentalizzando l’assistenza umanitaria che è già sotto attacco. È a rischio tutto il patrimonio e il sistema di regole che ci siamo dati dopo la II Guerra mondiale. Così si mette in pericolo la vita delle persone, anziché aiutarle”.

Il capannone con i frigoriferi e le celle refrigerate per i medicinali - L.Liv.
«Siamo stati accusati di inefficienze - conclude il funzionario Onu - che pure ci possono essere state, ma questa non deve essere una scusa per infliggere alla popolazione civile palestinese una punizione collettiva. Non si può parlare di pace e sicurezza mentre la gente muore di fame. Rischia di essere una macchia indelebile sulla coscienza degli Stati». La distribuzione degli aiuti gestita dal World Food Program durante la tregua – spiega un’altra fonte delle Nazioni Unite – «contava su 400 punti, il nuovo piano affidato a privati ne prevede da 5 a 8».
Preoccupazione pienamente condivisa dal mondo della società civile organizzata, arrivata domenica al valico di Rafah grazie ad Aoi, Arci e AssoPace Palestina - assieme a esperti di diritto internazionale e 14 tra parlamentari ed europarlamentari italiani di Pd, M5s e Avs - per ribadire anche il dovere di rispettare il diritto umanitario. Per tutti parla Alfio Nicotra, coordinatore della Carovana solidale per Aoi: «Le proposte di sostituire il sistema internazionale dell’aiuto umanitario con un sistema privatizzato, che così esclude le organizzazioni umanitarie riconosciute e lo stesso sistema Onu, è grave e inaccettabile». Secondo l’Associazione delle Ong Italiane «si configurerebbe come un utilizzo improprio della distribuzione degli aiuti, in violazione della Convenzione di Ginevra e del diritto umanitario. E la trasformerebbe in uno strumento di occupazione e di schedatura della popolazione affamata».

Autoambulanze donate da governi e agenzie internazionali in attesa di essere portate a Gaza - L.Liv.
Che l’azione umanitaria sia sotto attacco lo dicono le vittime a Gaza: 1.400 tra il personale sanitario, 305 tra personale delle Agenzie Onu, 511 operatori umanitari. Ma lo dicono anche le regole paranoiche imposte dall'Idf anche quando, due mesi e mezzo fa, i tir di aiuti potevano faticosamente passare. Un attacco più silenzioso, travestito da regole burocratiche. Nell’Hub numero 2 di Al-Arish c’è il “magazzino degli errori”, ci spiega Lofty Gheith, capo operazioni a Rafah della Mezzaluna Rossa. Cioè i materiali donati da tutto il mondo alla gente di Gaza ma bloccati. Attrezzature potenzialmente pericolose, secondo l'esercito israeliano, perché potenzialmente dual use.

L'hangar dell'Hub 2 ad Al-Arish - L.Liv.
Come questa cassa di palloni e magliette da calcio, respinta per colpa del baule di lamiera. O le lampade da campeggio alimentate da piccoli pannelli solari: vietato qualsiasi apparato fotovoltaico. Set da cucina nemmeno, perché ci sono i coltelli. No alle bombole da ossigeno, perché d’acciaio. Così come le ruote di scorta per ambulanze. Si rasenta il ridicolo, o il tragico, quando Gheith ci mostra i sacchi a pelo bloccati perché color verde militare. Ma addirittura le sedie a rotelle e le stampelle, genere tragicamente di prima necessità a Gaza, perché costruite in metallo. E poi sofisticate apparecchiature per radiografie. O maschere per ossigeno. O generatori di elettricità portatili. E nemmeno un supertecnologico purificatore per acqua potabile alimentato da pannelli solari. Gheith ci chiede di non fotografare niente di tutto ciò, per il timore che i donatori, frustrati, non spediscano più nulla: «Stiamo dando indicazioni dettagliate, gli aiuti medici italiani sono passati tutti. I beni in questo magazzino sono solo una piccola percentuale degli aiuti – dice sconsolato il dirigente della Mezzaluna rossa – ma sono forniture essenziali, senza le quali è impossibile fornire assistenza».