venerdì 13 giugno 2025
Avvisto dei raid lunedì, fino a ieri sera il tycoon aveva insistito (formalmente) ribadendo che l'intesa con Teheran sul nucleare era vicina. E chiedendo a Netanyahu di evitare i raid
Il premier iraeliano Benjamin Netanyahu all'Assemblea generale dell'Onu di New York il 27 settembre 2012

Il premier iraeliano Benjamin Netanyahu all'Assemblea generale dell'Onu di New York il 27 settembre 2012 - Reuters

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Questa volta la risposta di Teheran non sarà poco più che «simbolica», come avvenne tra la primavera e l’autunno dell’anno scorso, quando Joe Biden frenò l’ira di Ali Khamenei in cambio di promesse. Promesse che ora Donald Trump ha sovvertito. Anzi, come ha dimostrato di fare ormai dall’insediamento alla Casa Bianca, promesse che ha lasciato che venissero scavalcate dalle intenzioni degli altri. Il problema è infatti l’implicito (anche se negato fino all'ultimo) avallo a tutta l’operazione Leone Nascente (come sempre con una citazione biblica) di Israele da parte di Trump. Che ormai non controlla da tempo l’alleato mediorientale. A partire da quanto succede a Gaza per finire alla questione iraniana, l’intervento in Siria o in Libano.

Ha lasciato che la diplomazia, gli accordi di Abramo in particolare, cedesse di nuovo il passo all’egemonia militare di Tel Aviv nella regione. Egemonia armata e rifornita dalla Casa Bianca di armi e tecnologia. Trump sapeva dalla telefona di lunedì scorso il giorno e l'ora dei raid. Ha fatto evacuare le ambasciate della regione e fino a ieri sera ha parlato di «accordo vicino con Teheran sul nucleare» chiedendo a Israele di non rovinare tutto con l’azione dei caccia e degli uomini del Mossad che in poche ore hanno decapitato i vertici militari, dei Pasdaran e dell’esercito, e quelli scientifici legati al programma nucleare. Un attacco preventivo, ha detto Israele: preventivo rispetto a che cosa? Alla realizzazione di una bomba nucleare da parte dell’Iran, la stessa che all’Assemblea generale dell’Onu del settembre 2012 aveva ritratto in un cartellone-cartoon con la miccia fumante e la sfera esplosiva.

Nel diritto internazionale l’attacco preventivo è “giustificato” da un’immediata minaccia. La prova per Israele è forse la risoluzione che ieri l’Aiea ha pubblicato bocciando l’autenticità dei dati forniti da Teheran sulla quantità di uranio arricchito a Natanz, lo stesso impianto colpito dagli F-35 venduti da Washington a Tel Aviv? Per molti esperti internazionali, però, questo non basterebbe a giustificare l'operazione. La paura di Israele di avere in Medio Oriente un rivale, al suo pari, nucleare è legittima e giustificata. Il sistema usato per scongiurarla lo è meno, soprattutto dopo che il presidente Usa ha detto che l’accordo con gli ayatollah era vicino e qualche ora più tardi ha ribadito che Teheran non può avere la bomba atomica.

Insomma: quell’escalation che per mesi tutti hanno temuto, tanti brandito e pochi sperato è pronta per essere mesa in campo. In un quadrante già devastato a Gaza, rivoluzionato in Siria e sconquassato in Libano l’ultimo sviluppo non fa che ampliare il rischio. Per l’ennesima volta con attori ben al di fuori del contesto: la Russia in primis, principale fornitore e partner tecnico e militare degli ayatollah. Uno scenario che si interseca alla contrapposizione già in atto in Ucraina e in altre realtà “minori”. Tanti pezzetti di una guerra in cui sbiadisce sempre più l'accezione di “regionale”.


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